Il primissimo monachesimo della Gallia

Bazyli Degórski O.S.P.P.E.
Roma – PUST

  1. San Martino di Tours
  2. La diffusione del monachesimo dopo san Martino di Tours
  3. San Giovanni Cassiano
  4. Sant’Onorato e il monachesimo di Lerino
    1. Sant’Ilario di Arles (401-449)
    2. Sant’Eucherio di Lione (380-450)
    3. San Lupo di Troyes († 479)
    4. Vincenzo di Lerino († 450)
    5. Salviano (390-496)
    6. San Massimo di Riez (circa 380-452)
    7. Fausto di Riez (poco prima del 410 – ca. 493)
    8. San Nazario
    9. San Porcario
    10. San Rustico
    11. San Valeriano (o Valerio)
    12. Sant’Antonio Ciro (ca. 470-525)
    13. San Domiziano
  5. San Germano e il monachesimo della Borgogna
  6. San Paolino di Nola
  7. Il monachesimo del Giura
  8. San Cesario di Arles
  9. Continuatori dell’opera monastica di san Cesario d’Arles
  10. Conclusione
  11. Letteratura

L’articolo intende presentare, in modo piuttosto dettagliato, gli inizi del movimento monastico
latino in Gallia. Sarà, perciò, preso in considerazione il periodo che si estende dalla seconda metàdel IV
secolo sino ai primi decenni dei secolo VI.

1. San Martino di Tours

Le primissime notizie sul monachesimo gallico vero e proprio sono collegate a san Martino di Tours e alle vicende del suo tempo. Anzi, con san Martino il monachesimo occidentale come tale conosce una fisionomia nuova. La biografia del santo è nota e dettagliata[1] , per cui qui ne sarà richiamato solo qualche momento saliente.

Nato da famiglia pagana abbiente, fu istradato alla carriera militare senza esiti brillanti, dato che Martino provava attrazione verso i cristiani[2] e, nonostante gravi difficoltà, intraprese il catecumenato[3]. La sua vita cristiana sotto le armi fu molto movimentata: ricevette il battesimo e l’ordine di esorcista[4] ; si recò dai suoi per convertirli alla vera fede[5] ; dopo aver convertito la madre[6] , fu perseguitato ed espulso dalla sua regione a motivo dell’arianesimo ivi imperante[7] ; tornato a Milano, città privata del vescovo sant’Ilario mandato in esilio, eresse un romitaggio nei pressi della città, che purtroppo dovette presto abbandonare a causa della stessa persecuzione ariana.

In seguito, tornò a questo intento monastico, ritirandosi a Ligugé, ove fu raggiunto da numerosi discepoli[8]. In questo periodo, si dedicò anche alla missione di catechesi e predicazione nelle campagne limitrofe quasi non evangelizzate[9] , accompagnata da operazioni di prodigi[10] e da una tale fama di santità che il popolo lo volle vescovo[11]. Tale elezione non lo distolse dalla sua vita ascetica condotta in una cella che, dapprima attigua alla cattedrale, venne in seguito edificata a Marmoutier, proprio allo scopo di tutelare il raccoglimento del santo[12].

È difficile capire come il vescovo di Tours abbia potuto assolvere anche al compito di abate di Marmoutier; ma è certo che fosse animato da instancabile zelo apostolico[13] , per cui, vestito di un mantello di pelo di capra[14] , non perdeva occasione di predicare, convertire[15] ed erigere parrocchie e monasteri[16] , anche in occasione della sua attività episcopale, ad esempio nel Delfinato[17] , a Burdigala e Saragozza[18] , oltre i Pirenei[19].

Il suo stile monastico non è copiato pedissequamente dall’Oriente, ma è originale. Infatti, in san Martino si incontra una convivenza peculiare tra l’abate e il vescovo, fra l’autorità monastica e quella gerarchica che gli impongono sollecitudini e compiti distinti, che egli seppe far conciliare. La sua proposta monastica è singolare anzitutto quanto ai luoghi del ritiro, che non sono impervi deserti pieni di fiere, bensì verdi pianure della Loira. In secondo luogo, per il regime alimentare che è ben diverso dai lunghissimi digiuni dei suoi predecessori orientali; anche per l’assoluta reclusione del monachesimo orientale che è affian-cata dalla dipendenza dal proprio vescovo che san Martino conserva in quanto chierico; infine, è tipico ed originale del monachesimo di san Martino il peregrinare per le strade predicando e convertendo[20].

Come monaco, fu sorpreso dall’arrivo dei discepoli e non osò conferire loro una fondazione clericale; ne fu capo ma solo come tramite del vescovo sant’Ilario. A Marmoutier, invece, quando era ormai vescovo, il monastero divenne quasi un seminario da cui attingere sacerdoti per le diocesi[21] , una scuola alla virtù cristiana, un centro di istruzione teologica dato anche il fatto che un buon numero di discepoli[22] aveva conseguito una formazione umanistica prima di rinunciare al mondo[23].

Si può affermare che il suo monachesimo abbia un’impronta pragmatica; infatti, esso si fonda su una regola non scritta, non solo perché san Martino non era un letterato, ma soprattutto perché desiderava che la regola si potesse adattare alle diverse situazioni concrete; allenta, inoltre, il rigore della disciplina ascetica a favore della disponibilità pastorale, né dà dettagliate prescrizioni comunitarie tanto che si dubita persino che i monaci a Ligugé fossero tenuti all’ufficio canonico in comune; l’iniziativa individuale, insomma, prendeva il sopravento sulla disciplina comune, come il caso di Monte Sant’Antonio e delle Celle. Le sue fondazioni si presentano, dunque, come effetto della sua personale esperienza esistenziale e della sua sensibilità pastorale, che si ispira all’esempio del Signore piuttosto che ai maestri di eremitismo orientali[24]. La giornata dei monaci, molto numerosi a Marmoutier[25] , si svolgeva nelle loro piccole celle di legno, ad imitazione di quella di san Martino[26] , oppure in grotte[27] ; era interamente dedicata agli esercizi spirituali e alla preghiera, che in san Martino era senza interruzione[28] ; si viveva nella più radicale povertà, infatti, i monaci non possedevano nulla, giacché trasferivano ogni loro sostanza al monastero[29] , né potevano eseguire attività manuali che sarebbero inevitabilmente sfociate in forme di commercio[30] ; potevano beneficiare, invece, della carità pubblica. L’amministrazione non ricadeva sull’abate stesso perché san Martino non intese essere l’amministratore e delegò tale impegno ad un intendente[31] ; normalmente si davano ad attività intellettuali, soprattutto alla copiatura di manoscritti, presso un probabile scriptorium-biblioteca; si riunivano per la preghiera e il pasto[32] ; il vino era proscritto, salvo che per i malati[33]. Ai monaci non era imposto un abito uniforme, e molti indossavano un vestito di pelo di cammello[34] , secondo l’uso classico.

Il monachesimo di san Martino costituisce un cenobitismo peculiare, che apprende dalla laura palestinese la libertà lasciata ai suoi membri e vi aggiunge la povertà evangelica; che si aspira all’anacoresi egiziana e anticipa la preoccupazione apostolica della comunità canonicale agostiniana; che mostra nell’obbedienza all’abate una grande disponibilità al servizio della Chiesa.

Quando, all’inizio del V secolo, il monaco Eros di Marmoutier fu acclamato vescovo di Arles, succeduto dall’anacoreta Elladio, e questi da sant’Onorato abate di Lerino, si creò una continuità tra la spiritualità di san Martino e quella della Provenza[35].

2. La diffusione del monachesimo dopo san Martino di Tours

Durante i funerali di san Martino erano presenti quasi duemila monaci[36]. Ancorché questa cifra fosse esagerata, essa potrebbe certamente indicarci la diffusione e lo sviluppo della vita monastica in quella terra delle Gallie.

Ma di quale genere di monaci si tratta? In quel periodo vi erano cenobiti, eremiti, reclusi, ma anche dei semplici conversi, di cui la vita era simile a quella dei monaci stessi. Tra questi conversi, in Gallia, forse il più famoso fu san Sulpicio Severo che riunì nella sua proprietà terriera di Primuliacum una vera famiglia spirituale di discepoli[37].

San Sulpicio Severo, celebre biografo di san Martino, anch’egli di Burdigala, e amico intimo di san Paolino di Nola[38] ; nacque nel 363 da famiglia aristocratica e, dopo essere divenuto il più celebre avvocato di Burdigala, si sposò con una donna di famiglia consolare[39]. Rimasto vedovo in giovane età e devoluti tutti i suoi averi ai poveri, si diede alla vita ascetica[40] , incoraggiato in ciò dalla suocera Bassula, che lo persuase anche a scrivere la famosa vita di san Martino di Tours[41]. Conservò solo la proprietà di Primuliacum, tra Tolosa e Narbona, per trasformarla in monastero[42] i cui monaci furono i suoi inservienti e clienti, assieme ai quali abitava anche Bassula[43].

La vita del monastero non era normata da una regola esplicita, si svolgeva secondo l’ideale di san Martino, ma la sua peculiarità era il rapporto tra i monaci e l’abate, giacché Sulpicio restava in qualche modo il signore e proprietario, senza prendere mai parte ai lavori manuali e do-mestici dei suoi monaci[44].

Certamente, il tutto era pervaso da uno spirito nuovo, ispirato ai consigli evangelici, alla penitenza, alla pietà a cui san Sulpicio Severo per primo uniformava la propria condotta; si può pensare, tuttavia, che le condizioni particolari in cui nacque e visse questo monastero determinarono anche il suo scioglimento alla morte di san Sulpicio[45].

Gli orari godevano di una certa elasticità, si ricevevano ospiti, si organizzava il lavoro quotidiano con estro. San Sulpicio Severo, in particolare, seppure animato dal proposito di essere un padre per la sua comunità, si dedicava ad attività intellettuali, confacenti alla sua attitudine e al suo ceto[46] : redasse la Vita S. Martini[47] , completata da tre Dialogi[48] e da tre lettere[49] , scritte negli anni 397 e 398. Questo lavoro si pose per modelli le vite di sant’Antonio di sant’Atanasio di Alessandria[50] , di san Paolo il Primo Eremita[51] , di san Malco, monaco prigioniero[52] , e di sant’Ilarione[53] , scritte da san Girolamo.

Come si può constatare, questo primissimo monachesimo in Gallia era piuttosto di stampo cittadino. La presenza di questi monaci che vivevano in città era d’aiuto per il clero. Accanto a questo movimento monastico urbano dobbiamo anche ricordare le vergini consacrate a Dio che, sempre più numerose, conducevano una vita cenobitica. Ci furono anche delle recluse[54].

Una figura simile a san Martino di Tour fu san Vittricio di Rouen[55]. Divenuto vescovo verso il 380, visse ed operò da monaco-vescovo. Combatté vigorosamente contro il paganesimo rurale. Mantenne stabili contatti con sant’Ambrogio di Milano e, anzitutto, con san Paolino di Nola. Il suo influsso e la sua fama oltrepassarono i confini della sua diocesi e della stessa provincia. Infatti, i vescovi della Gran Bretagna usufruirono della sua perizia e saggezza per ripristinare l’ordine nelle loro diocesi. San Vittricio svolse anche, con notevoli risultati, un ministero missionario nel nord della Gallia. Fondò, inoltre, alle porte di Rouen almeno un monastero femminile e due maschili, e anche un monastero[56] a Thérouanne (città gallo romana nei pressi di Sanit-Omer)[57]. Durante i suoi viaggi pastorali cercava di insediare anche in diversi luoghi gruppi di monaci. In tal modo, grazie all’azione di san Vittricio, nel nord delle Gallie, nelle terre di Boulogne, Artois e nelle Fiandre occidentali sorgevano numerosi eremi e cenobi[58].

3. San Giovanni Cassiano

Natione Scytha[59] , san Giovanni Cassiano, nacque intorno al 360 in Dobrugia, in cui la gente parlava latino, ma san Giovanni Cassiano conosceva anche perfettamente il greco. Attirato dall’ideale monastico, in compagnia dell’amico Germano andò in pellegrinaggio in Palestina e lì tutti e due, verso il 378, si fecero monaci in un monastero di Betlemme[60]. Nell’arco di due anni, però, furono attratti dalla fama dei monaci egizi. Visitarono diversi monaci del delta del Nilo e si fermarono nel deserto di Scete presso la comunità diretta da Pafnuzio. Da qui ebbero modo di fare diverse visite ad altri gruppi monastici[61].

Verso il 387, ritornarono in Palestina per ottenere il permesso di rimanere stabilmente in Egitto. Il loro soggiorno, però, nella patria del monachesimo non durò lungo, fino al 400 circa. Infatti, a causa delle persecuzioni contro i monaci origenisti, san Giovanni Cassiano venne a Costantinopoli ove san Giovanni Crisostomo lo ordinò diacono, ovviamente prima del 404[62].

Essendo seguace del suo vescovo, san Giovanni Cassiano, incaricato dal clero fedele al Crisostomo, san Giovanni Cassiano portò a Roma, accompagnato dall’amico Germano, un’ambasceria al papa Innocenzo I. Nell’Urbe conobbe personalmente Palladio, Rufino e santa Melania la Giovane[63].

Ordinato prete probabilmente da Alessandro, vescovo di Antiochia[64] , e, in seguito, sbarcato a Marsiglia intorno al 415, chiese al vescovo Procolo ove potesse trovare un luogo solitario per condurvi vita eremitica; invitato dal vescovo a fondare un monastero cenobitico, obbedì e, su un terreno circostante il santuario dedicato a san Vittore, fondò il suo cenobio, detto Paradisus[65] , che si trovava a sud dell’attuale Vieux Pont . In seguito fondò, in una data a noi sconosciuta, il monastero femminile di San Salvatore, situato probabilmente all’interno della vecchia cinta muraria della città[67] , ma non se ne hanno notizie precise[68]. San Giovanni Cassiano morì a San Vittore intorno al 435[69].

La regola che san Giovanni Cassiano diede ai suoi monaci, non ci è stata tramandata. Si presume che l’avesse composta per iscritto, dato il suo interesse e la sua competenza riguardo le regole monastiche[70]. San Giovanni Cassiano fu autore anche del De institutis coenobiorum[71] , nel 420 circa, composto per il monastero di Ménerbes, fondato da san Castore vescovo di Apt in Provenza, su richiesta dello stesso fondatore[72]. Il lavoro fu portato a termine con grande sollecitudine da san Giovanni Cassiano[73]. Ma la sua opera che lo rende famoso fino ad oggi sono naturalmente le Conlationes patrum[74]. San Giovanni Cassiano scrisse, inoltre, il De incarnatione Domini contra Nestorium[75].

4. Sant’Onorato e il monachesimo di Lerino

Quando sant’Onorato fondò, nel 405, la comunità monastica di Lerino, nella Provenza esisteva solo il monastero di Embrun fondato da san Marcellino, intorno al 360, e costituito da una comunità clericale[76].

Della vita e dell’attività pastorale e monastica di sant’Onorato ci informa il suo discepolo e successore alla sede episcopale di Arles, sant’Ilario di Arles, nel Sermo de uita Sancti Honorati Episcopi Arelatensis[77] , sebbene non sia stato possibile ricostruirne esattamente alcuni tratti[78].

Non si conoscono esattamente la data e il luogo di nascita di sant’Onorato; si presume sia avvenuta nel 365 in Lorena o in Borgogna, da una famiglia della nobiltà gallo-romana; ricevette un’educazione elevata, cui volle unire la formazione alla fede, ma, a causa dell’opposizione dei genitori, attese i vent’anni per accedere al battesimo e anche dopo l’evento dovette subire il dissenso paterno[79].

Circa un anno dopo, cioè probabilmente nel 386, sentì la chiamata alla vita eremitica; così, tagliati i lunghi capelli, indossato un saio e, lasciata la famiglia, si avviò in compagnia del solo fratello Venanzio in un asceterio sito nei possedimenti familiari, forse presso Cannes, seguendo la regola comune agli eremiti. Presto i due eremiti ritennero necessario stabilirsi nel deserto per evitare le continue visite da parte della popolazione. Perciò, distribuiti i beni materiali ai poveri, intorno al 394 si trasferirono su isole, probabilmente le isole di Hyères, lasciandosi guidare da san Caprasio. In seguito, si spostarono ancora a Marsiglia e in Grecia, nella quale si costituirono come laura essendo ormai aumentato il numero del gruppo[80].

Si pensa che dopo circa otto anni, cioè nel 403, essendo stati colpiti prima da un’epidemia che uccise, tra gli altri, Venanzio, poi dalla minaccia dell’invasione gotica e, infine, dalla nostalgia, abbiano fatto ritorno in Europa, a Fréjus presso il vescovo Leonzio con il quale sant’Onorato stabilì una forte amicizia[81] e dal quale ricevette l’ordine all’inizio del suo abbaziato. Sant’Onorato, infatti, cercava un’isola deserta sulla quale collocare la comunità, e la trovò nell’isola di Lerino, al largo di Cannes, ritenuta inabitabile e infestata da rettili e animali selvaggi. Ciò nonostante, quando sant’Onorato vi sbarcò desiderò restarvi per sempre, presto raggiunto da discepoli[82].

L’isola divenne luogo di grazia: sant’Onorato amava ogni genere di animale, non si allontanava mai dall’isola se non in caso di assoluta necessità, trascorreva la giornata tra i monaci, soprattutto quelli bisognosi e malati, accoglieva i poveri e gli ospiti; non lasciava mai alcuno senza conforto materiale o spirituale. Caprasio lo aiutava come consigliere e maestro dei novizi[83].

Nel 427, l’abate Onorato fu chiamato sulla sede metropolitana vacante di Arles, riversando nell’ufficio episcopale il suo carisma monastico. Infatti, volle anzitutto stabilire la concordia nel clero, poi formare una Chiesa più povera, dando in elemosine e fondazioni molti beni ecclesiastici[84].

Ormai fiaccato dalla malattia e allettato, sant’Onorato continuava a ricevere pellegrini e impartire loro esortazioni, consigli e ordini. Non volle venir meno ai suoi impegni pastorali ed episcopali neanche il giorno dell’Epifania del 430, quando si alzò dal letto per la celebrazione solenne. Otto giorni dopo morì, ma la sua opera continuò a vivere e a fruttificare spiritualmente[85].

Talvolta vengono citate le „Regole dei santi Padri di Lerino” con quelle di san Basilio di Cesarea in Cappadocia e di san Pacomio; oppure si parla della regola che sant’Onorato aveva dato a Lerino tratta dall’uno e dall’altro Testamento; persino si elogia lo stile letterario di sant’Onorato. Ciò ed altre testimonianze fanno pensare che la comunità monastica di Lerino fosse retta da una regola stilata proprio da sant’Onorato, sebbene non si sia conservata fino ai nostri tempi[86]. Qualche decennio fa, sono state pubblicate le „Regole dei santi Padri”, prima erudita edizione di cinque testi figuranti nel Codex Regularum di Benedetto d’Aniane; secondo dom A. de Vogüé, O.S.B., la „Regola dei quattro Padri: Serapione, Macario, Pafnuzio e l’altro Macario” costituisce la prima normativa monastica di Lerino; Serapione rappresenta Leonzio e insiste sull’unità e ubbidienza, Macario di Scete impersona lo stesso sant’Onorato, che focalizza la funzione dell’abate; Pafnuzio, forse il discepolo di sant’Antonio, forse invece Pafnuzio Bubalo, abate di Scete, impersona Caprasio che ammonisce sul digiuno e il lavoro; l’altro Macario incarna nuovamente sant’Onorato, nonostante la regola sia detta dei „quattro Padri” e non dei tre, per cui bisognerebbe forse leggere un altro personaggio celato dietro il nome di Macario, che si occupa dei rapporti con gli altri monasteri, dell’accoglienza dei chierici e delle punizioni. I discorsi dei Quattro Padri sono orientati in particolare a combattere l’oziosità dei monaci, vizio che maggiormente impediva lo sviluppo della vita monastica in quelle regioni. Infatti, la comunità di Lerino si distinse e si sviluppò proprio grazie all’operosità dei suoi monaci[87].

Tale regola doveva essere in se stessa molto severa, ma applicata dal superiore con sapienza a seconda dei singoli casi. Sant’Onorato considerava ogni suo monaco come un figlio al servizio della cui crescita deve essere intesa la regola[88].

Fondamentalmente la regola di Lerino rifletteva la spiritualità orientale, che sant’Onorato aveva appreso e sperimentato nel Peloponneso e forse anche in altre regioni, e che poteva continuare a conoscere attraverso le fonti sempre più diffuse in Occidente, quali la regola di san Basilio Magno, tradotta da Rufino di Aquileia e pubblicata da san Sulpicio Severo, l’Ordo monasterii, diffuso da Tagaste dopo il 395, la stessa seconda serie delle Conlationes Patrum sui monaci d’Egitto dedicata da san Giovanni Cassiano proprio a sant’Onorato. L’orizzonte ascetico dei monaci di Lerino era, quindi, molto ampio e, giova ricordarlo, il livello culturale generale piuttosto alto, giacché molti monaci erano aristocratici[89].

Il lavoro manuale era presente nella regola, tuttavia senza che risultasse opprimente per alcuno; ugualmente le esigenti veglie notturne monastiche potevano essere dispensate a coloro che si mostravano più deboli. L’alimentazione normalmente scarsa era aumentata per i più cagionevoli; la convivenza fra i monaci dipendeva dal loro livello spirituale. Grande importanza era data all’obbedienza e alla reciproca carità. Per quanto riguarda la disciplina ecclesiastica, Lerino dipendeva dal vescovo di Fréjus, al quale erano anche presentati gli aspiranti sacerdoti, che da lui ricevevano il sacramento del presbiterato, ma in sede; ugualmente avveniva per il sacramento della confermazione, mentre per il battesimo e per il sacramento degli infermi era predisposta una riserva di olio santo[90].

L’abate, oltre ad interpretare e ad applicare la regola, è il garante della gioia e della concordia. Consapevoli di ciò, i monaci gli prestano obbedienza in piena letizia; l’abate deve essere anche modello per i suoi discepoli e monaci e aiutarli ad elevare le loro anime verso la realtà celeste e divina. Se necessario, l’abate deve saper alternare alla pietà e alla dolcezza verso i suoi sudditi la severità. Nel suo governo, egli deve rispettare l’imparzialità ed agire davanti al giudizio di Dio[91].

Alcune mansioni vengono distribuite dal superiore fra i monaci, soprattutto se la comunità è numerosa[92]. Al superiore, tuttavia, è riservata l’accoglienza dei nuovi arrivati: è lui che parla loro per primo, che li introduce alla preghiera comunitaria, che li istruisce durante il pasto. La medesima severità nei contatti con i monaci da parte dei neofiti è raccomandata anche nei casi di monaci che provengano da altri monasteri, che inizialmente staranno a contatto con il solo superiore. Appartiene ugualmente all’abate di accordare il permesso, soprattutto ai monaci novelli ed inesperti, di prendere la parola nei dibattiti sulla Sacra Scrittura; davanti al superiore o al suo secondo i monaci rei di qualche trasgressione non concluderanno la loro preghiera; all’abate spetta, infine, di portare alla comunità la parola di Dio e l’insegnamento della Chiesa[93]. Ma ora vediamo anche più da vicino i discepoli di sant’Onorato.

4.1. Sant’Ilario di Arles (401-449)

Le notizie su sant’Ilario di Arles ci fornisce la Vita Sancti Hilarii Arelatensis[94] , stilata da un autore che si presenta come Reuerentius, che è, con tanta probabilità, uno pseudonimo del suo discepolo: sant’Onorato, vescovo di Marsiglia[95]. Inoltre, lo stesso sant’Ilario ci dà notizie riguardanti la sua vita nel Sermo de uita Sancti Honorati Episcopi Arelatensis[96].

Sant’Ilario nacque intorno all’anno 401[97] , ed era parente e disce-polo di sant’Onorato di Lerino[98]. La Vita anonima di san Lupo[99] , vescovo di Troyes, parla di una sorella di sant’Ilario, di nome Pimeniola, sposa dello stesso san Lupo. Inoltre, la medesima Vita sostiene che anche sant’Ilario fosse natio della Gallia Belgica, come san Lupo[100].

Come di solito si legge nelle Vitae, sant’Ilario anelava alla gloria del mondo. Possedeva tutto ciò che occorreva per raggiungerla: nascita illustre, ricchezza, qualità naturali di bellezza, eleganza, intelli- genza, eloquenza nobile e convincente, brillanti studi di retorica e di filosofia[101].

Non prima del 420[102] , sant’Onorato decise di attirare sant’Ilario[103]. Sembrerebbe, però, che sant’Ilario non volesse ascoltarlo, perché sant’Onorato, nonostante si allontanasse malvolentieri dal suo monastero, ritenne necessario andare a conquistare sant’Ilario sul posto. Lo stesso sant’Ilario ci racconta la sua conversione: sant’Onorato iniziò a parlargli, ma egli non l’ascoltava. Quindi, sant’Onorato iniziò a pregare[104]. „Io però – riferisce sant’Ilario – resistevo e, assecondando l’abitudine tanto pericolosa che avevo del mondo, mi impegnavo con giuramento a perseverare nella mia ostinazione”[105]. Sant’Onorato, perciò, partì senza averlo convinto. Nei due giorni che seguirono, una tempesta spirituale si abbatté su sant’Ilario ed egli improvvisamente si convinse[106]. Diede, quindi, le sue ricchezze ai poveri e si fece monaco a Lerino[107].

In breve tempo, questo giovane monaco conquistò tutte le virtù monastiche. Nel 427, il suo padre spirituale, sant’Onorato, fu eletto vescovo di Arles, e sant’Ilario lo seguì nella città episcopale. Ma l’amore della quiete monastica ebbe il sopravvento, per cui tornò di nuovo a Lerino. Sant’Onorato, oppresso dalla malattia, vedeva in sant’Ilario il migliore dei suoi possibili successori. Dunque, lo richiamò presso di sé. Ma appena sant’Onorato fu sepolto, sant’Ilario fuggì di lì, ma quando aveva ventotto anni, Cassio, comandante delle truppe romane, mandò un gruppo di soldati che lo ricondusse ad Arles[108].

La sua prima azione fu di fondare, presso il suo palazzo vescovile, un monastero in cui inviò i suoi chierici e si scelse una cella. Si dedicava persino al lavoro manuale, ma mentre tesseva, si dedicava alla lettura o dettava una lettera, ecc. Era sempre ansioso di salire in cattedra per annunciare la parola di Dio e la sua eloquenza era tale che riusciva ad interessare l’uditorio per quattro ore senza interruzione! Portava sul corpo un cilicio e possedeva una sola tunica. Si spostava sempre a piedi. Visitava in tal modo tutta la sua provincia ecclesiastica. Destinava agli infelici le rendite del suo lavoro manuale. Per riscattare i prigionieri, fece vendere gli oggetti d’oro e d’argento che ornavano la sua cattedrale, e perfino i vasi sacri. Se doveva imporre una penitenza, piangeva amaramente. Al primo monastero che aveva fondato, sant’Ilario ne aggiunse altri[109]. Sappiamo che in essi la vita era austera, ma ignoriamo se ci fosse una regola precisa e se fosse diversa da quella di Lerino. Si può congetturare che questa avesse servito di modello a sant’Ilario.

Sant’Ilario di Arles svolse un’azione ecclesiale importante[110]. Ebbe una parte di primo piano, nel 429, al concilio delle Gallie; presiedette i concili: di Riez, nel 439[111] ; di Oranges, nel 441[112] ; di Vaison, nel 442[113]. Morì il 5 maggio del 449, all’età di quarantotto anni[114].

4.2. Sant’Eucherio di Lione (380-450)

Anch’egli proveniva dall’alta aristocrazia gallo-romana. Aveva sposato una certa Galla, dalla quale ebbe due figli. Dopo alcuni anni di matrimonio, però, decise di consacrarsi totalmente a Dio nel deserto. Inizialmente voleva partire per l’Egitto, ma aveva ancora la responsabilità dei figli. Fu attirato da Lerino. Lo ricevette sant’Onorato sia come ospite sia come postulante, ma vi rimase poco tempo, perché ciò che lo attraeva davvero era la vita eremitica. Si stabilì, quindi, sulla vicina isola di Lera, oggi Sainte-Marguerite. I due sposi affidarono i loro figli ai monaci di sant’Onorato e si stabilirono ciascuno in un romitorio[115].

Sant’Eucherio intrattenne una corrispondenza assidua con sant’Onorato, san Paolino di Nola e con san Giovanni Cassiano. Quando, intorno al 435, morì il vescovo di Lione – Senatore – fu scelto a succedergli proprio sant’Eucherio[116].

L’episcopato di sant’Eucherio è mal conosciuto. Infatti, non sappiamo nulla di concreto della sua attività pastorale vescovile[117]. Claudiano Mamerto, suo contemporaneo, afferma, però, che sant’Eucherio ha superato tutti i vescovi del suo tempo[]. Era legato da amicizia con Massimo, abate dell’Ile-Barbe, e andava a trascorrere il periodo quaresimale nel suo monastero[119].

Di sant’Eucherio ci restano – oltre ad un certo numero di lettere[120] e delle Sententiae ad monachos[121] , che sono probabilmente apocrife –, due opere esegetiche che appartengono agli anni del suo episcopato (Formulae spiritalis intellegentiae[122] ed Instructionum libri duo ad Salonium[123] ), la „Passione dei martiri di Agauno” (Passio Acaunensium martyrum, Sancti Mauricii et sociorum eius[124] ), e due opuscoli di spiritualità monastica: il De laude eremi[125] e il De contemptu mundi et saecularis philosophiae[126]. Le sue omelie sono per noi perdute. Claudiano Mamerto, però, ci ha trasmesso un frammento del De statu animae (2, 9) di sant’Eucherio[127].

Il De laude eremi è una lettera indirizzata a sant’Ilario di Arles, per complimentarsi del suo ritorno a Lerino dopo il primo soggiorno presso il maestro sant’Onorato, che era divenuto vescovo. Il De laude eremi è forse il primo monumento latino occidentale di spiritualità del deserto[128].

Anche il De contemptu mundi è una lettera[129] , ma questa volta indirizzata ad un secolare che non vuole abbandonare niente e che sant’Eucherio desidera convertire ai consigli evangelici. Il destinatario è un parente di sant’Eucherio, Valeriano, legato alla famiglia imperiale da vincoli di sangue e possessore di un’immensa ricchezza[130].

I due figli di sant’Eucherio e di Galla furono affidati a sant’Ilario, san Vincenzo, Salviano. E così, Salonio divenne vescovo di Ginevra e Verano, invece, vescovo di Vence[131]. Tutti e due sono annoverati ai santi della Chiesa[132].

4.3. San Lupo di Troyes († 479)

Parente di sant’Onorato e cognato di sant’Ilario d’Arles, san Lupo apparteneva allo stesso ceto sociale. Nacque a Toul verso il 395[133]. Aveva studiato diritto e intrapreso la carriera di avvocato. Verso il 418, sposò Pinieniola che proveniva da una delle più ragguardevoli famiglie della Gallia[134]. Sua moglie ed egli stesso scelsero di seguire i consigli evangelici e, quindi, si separarono vicendevolmente per consacrarsi a Cristo. San Lupo scelse la comunità monastica di Lerino, dove si fece notare come uno degli asceti più santi.

L’anno in cui sant’Onorato fu consacrato vescovo di Arles (427), san Lupo dovette recarsi nella regione di Mâcon per concludere una questione d’eredità e distribuire i beni ai poveri. Il vescovo di Troyes, sant’Orso, era appena morto. I delegati del clero andarono a trovare il monaco Lupo e gli comunicarono la sua elezione. Lupo alla fine accettò, ma condusse da vescovo una vita simile a quella dei rigido monaci egiziani: portava soltanto una miserabile tunica sopra un cilicio, mangiava solo tre volte alla settimana, dormiva su una tavola, si alzava ogni notte per cantare mattutino.

Nel 429, san Lupo fu incaricato dai Padri del concilio di Arles[135] , di andare con san Germano d’Auxerre, in Bretagna a combattere l’eresia pelagiana[136].

Quando Attila marciò verso Troyes, Lupo passò alcuni giorni nella preghiera. Poi, andò incontro ad Attila e gli tenne un discorso così convincente che gli Unni non distrussero la città. Dopo essere stato sconfitto, Attila chiese a san Lupo di accompagnarlo fino al Reno. Lupo acconsentì, ma quell’atto fu ingiustamente interpretato come intesa con il nemico e il vescovo fu deposto dalle sue funzioni episcopali. Ne approfittò, però, per costruirsi un eremitaggio. Ciò nonostante, vi rimase soltanto due anni, perché fu richiamato in sede. Morì, nel 479, in età avanzata, dopo cinquantadue anni di episcopato [137].

4.4. Vincenzo di Lerino († 450)

Era gallico e di nobile stirpe e aveva ricoperto vari incarichi nell’amministrazione imperiale. È noto soprattutto grazie alla sua opera teologica: il Commonitorium [138]. Quest’opera vuole rispondere alla seguente questione se esiste un metodo sicuro, universale e immutabile grazie al quale si possa discernere la vera fede cattolica dalle menzogne dell’eresia [139]. E risponde che basta basarsi sulla Sacra Scrittura e sulla tradizione, ossia su ciò che è stato creduto sempre ed ovunque da tutti, dato che ciò che è veramente cattolico, come indica l’etimologia della parola stessa, è universale[140]. Vincenzo applica questo principio alle svariate eresie, dimostrando il loro errore. Inoltre, egli espone la teoria del progresso del dogma che consiste nel fatto che ogni cosa si sviluppa restando se stessa; la caratteristica dell’alterazione è che una cosa si mutua in un’altra[141].

4.5. Salviano (390-496)

Anch’egli era un aristocratico, nato a Colonia o a Treviri. Studiò a Treviri. Sposato giovane ad una pagana, che si fece battezzare sotto il suo influsso e dalla quale ebbe una figlia, venne a conoscenza della conversione di san Paolino di Nola e di Terasia e del loro voto di continenza. Propose, quindi, a sua moglie di seguire la stessa via ed ella acconsentì. Dopo sette anni passati nella provincia di Vienne, nella meditazione della Scrittura e nello studio degli autori ecclesiastici, i due sposi si separarono. Da quel momento, si perdono le tracce della donna e della figlia. Salviano ormai libero si fece monaco a Lerino e presto acquistò una fama così grande che sant’Eucherio di Lione chiese a lui di educargli i suoi figli. Nel 427, però, Salviano uscì dal monastero di Lerino e passò al clero della diocesi di Marsiglia[142].

Ciò nonostante, egli si adoperò ad esaltare le virtù monastiche. Pubblicò un’opera De virginitatis bono ad Marcellum presbyterum[143] , oggi per noi perduta, e quattro libri dell’Ad Ecclesiam[144] , che volevano diffondere l’amore della povertà. Scrisse, inoltre, importanti trattati teologici, dei quali il più importante è il De gubernatione Dei[145]. Ma aveva anche scritto una quantità di altre opere, non pervenuteci[146]. Salviano morì a Marsiglia, nel 496, in qualità di prete della cattedrale, apprezzato e stimato da tutti.

4.6. San Massimo di Riez (circa 380-452)

La sua vita fu scritta un secolo dopo la sua morte da Dinamio Patrizio[147] , amico di san Gregorio Magno. Ma si possono trovare molti fatti che lo concernono anche da un’omelia contenuta nella raccolta cosiddetta dell’Eusebio Gallicano[148] , ma scritta sicuramente da Fausto di Riez[149].

San Massimo nacque a Decomer presso Digne, oggi Château-Redon. La famiglia era di Riez in Provenza, dove possedeva grandi beni fondiari. Fu battezzato subito dopo la nascita. Visse per qualche tempo da asceta in famiglia[150]. Poi, chiese l’abito a sant’Onorato, a Lerino. Fu uno degli anziani che aiutavano l’abate nel governo del monastero. Nel 427, sant’Onorato, eletto vescovo di Arles, indicò san Massimo a succedergli nell’abbaziato[151]. Quando, nel 432, morì san Leonzio, Massimo fu eletto unanimemente alla sede di Fréjus. La sua umiltà gli impedì di recarsi sul continente. I vescovi che dovevano ordinarlo vescovo sbarcarono essi stessi sull’isola. Massimo fuggì nei boschi col monaco Fausto. Per ordine dei vescovi, si batterono tutti gli angoli di Lero. Tre giorni dopo, Massimo non era stato ancora trovato. I vescovi, quindi, decisero di farla finita e ripartirono. Fréjus si scelse un altro pastore[152].

San Massimo si credeva al sicuro. Nel 434, essendo vacante la sede di Riez, il suo nome uscì dalle urne. Questa volta, però, i capitolari giunsero subito in monastero, condussero l’abate nella cattedrale e l’ordinarono vescovo[153].

San Massimo mostrò, vivendo da vescovo, le stesse virtù che aveva praticato nel chiostro. Partecipò al concilio di Riez nel 439[154] , di Orange nel 441[155] , di Vaison nel 442[156] , e al concilio di Arles (negli anni 449-461) [157]. Ricevette il dono dei miracoli. Ignoriamo la data esatta della sua morte.

4.7. Fausto di Riez (poco prima del 410 – ca. 493)

Terzo abate di Lerino (dal 433 al 457). Nacque nella Britannia[158] poco prima del 410[159] , anch’egli fu retore e avvocato, ma si interessò più particolarmente alla filosofia. Percorse le Gallie, alla ricerca del sapere e della vera sapienza. In giovane età, probabilmente verso il 424, si fece monaco a Lerino, quando era abate sant’Onorato[160].

Quando, nel 433, san Massimo, successore di sant’Onorato, fu divenne vescovo di Riez, Fausto gli succedette nell’abbaziato[161]. Ordinato sacerdote, si sforzò di mantenere il fervore primitivo. Nei lunghi anni in cui assolse a questo incarico, fu venerato in monastero come un padre e fuori come un dottore[162].

Intorno 460, quando san Massimo morì, Fausto divenne vescovo di Riez fino all’anno 477, quando il re dei Goti, Eurico, lo esiliò a causa del suo antiarianesimo e delle vicende collegate all’occupazione dell’Alvernia e della Provenza da parte dei Visigoti. Nel 462, Fausto partecipò ad un concilio romano in qualità di rappresentante dei vescovi della Gallia[163]. Fausto tornò a Riez probabilmente verso il 485, anno in cui morì Eurico. Per quando riguarda la data della sua morte, essa viene stabilita in base alla lettera di Avito scritta prima del 500, dalla quale risulta che il vescovo di Riez era deceduto già da alcuni anni[164].

Fausto di Riez compose il De gratia[165] nel quale prende posizione intermedia tra la dottrina pelagiana e quella dei predestinazionisti. Infatti, gli sostiene che la prevaricazione dei progenitori abbia leso la nostra natura, ma non privandola completamente dell’aspirazione al bene. Per tale ragione Fausto viene considerato esponente del semipela-gianesimo[166].

4.8. San Nazario

Quarto abate di Lerino, occupò la carica dal 434 al 485. Fece distruggere sulla costa del continente un tempio di Venere e costruire un monastero di vergini che dedicò al protomartire santo Stefano. Tra le prime monache (forse la stessa badessa?), viene nominata santa Massima, che fino ad oggi è venerata nella diocesi di Fréjus[167].

4.9. San Porcario

Quinto abate di Lerino, governò la comunità solo probabilmente dal 485 al 489. Egli concesse l’abito monastico a san Cesario di Arles e scrisse una specie di manuale della vita monastica, Monita, che è andato perduto[168].

4.10. San Rustico

Nato a Marsiglia, studiò a Roma e poi tornò in Provenza per condurvi la vita monastica. Esitava tra la vita cenobitica e quella eremitica. Nel 411, scrisse, quindi, a san Girolamo per chiedergli il suo parere. Costui gli consigliò la vita cenobitica[169]. Così Rustico si fece monaco a Lerino. Nel 427 fu eletto metropolita di Narbona. Sembra che sia morto il 26 ottobre del 461[170] .

4.11. San Valeriano (o Valerio)

Probabilmente della nobile famiglia dei Valeriani della Gallia. Fu prima monaco di Lerino, poi abate di un monastero, infine vescovo di Cimiez (o Cémèle; Cemenelum), dal 439 al 460 (vicino a Nizza) [171] . Valeriano partecipo al concilio di Riez, nel 439[172] , e a quello di Vaison, nel 442[173] . Di questo vescovo-monaco possediamo una ventina di omelie e una lettera Ad monachos sul „Bene della disciplina” [174].

4.12. Sant’Antonio Ciro (ca. 470-525)

La sua „Vita” (Vita Antonii) fu scritta da sant’Ennodio[175] , vescovo di Pavia. Essa fu commissionata da Leonzio, abate di Lerino[176] . Originario della Pannonia (nato a Civitas Valeria), figlio di Secondino[177] , rimasto orfano all’età di otto anni, figlio spirituale di san Severino[178] , Antonio Ciro andò a vivere con uno zio, san Costanzo[179] , vescovo di Lorch, poi si spostò nella Valtellina presso un asceta di nome Mario[180] . In seguito, si recò in Italia e, assieme ai due discepoli, cominciò la vita solitaria a Como, presso la tomba di san Fedele[181] . Morti i confratelli, visse da solo inoltrandosi in una solitudine. Infine, poiché anche lì la gente andava ad importunarlo, si fece monaco a Lerino, dove passò gli ultimi due anni della sua vita [182].

4.13. San Domiziano

Non conosciamo con precisione le date della sua vita. Gene-ralmente si può soltanto dire che visse nel V secolo. Romano di nascita, san Domiziano divenne a Lerino modello di tutte le virtù monastiche. Per evitare le lodi della gente, si ritirò nella solitudine di Bébrou, nel Delfinato, che si trasformò intorno a lui in un importante monastero, chiamato poi Saint-Rambert[183].

5. San Germano e il monachesimo della Borgogna

San Germano, nato ad Auxerre nel 380 circa, era un intellettuale, di ottima formazione giuridica, sposato ad una donna dell’aristocrazia gallo-romana. Nominato generale delle truppe d’Aquitania e delle province lionesi, fu ordinato sacerdote dal vescovo sant’Amatore quasi di sorpresa, e nel 418, alla morte dello stesso sant’Amatore, fu acclamato dal popolo vescovo[184] .

Abbracciò la povertà radicale, vendendo ogni suo avere, e la castità assoluta assieme alla moglie[185] che si trasferì e prese ad occuparsi di opere caritative. San Germano si cibava di pane d’orzo e acqua, una sola volta al giorno, indossava un cilicio e dormiva su una tavola.

Non si risparmiava nel rendersi presente sia alla diocesi che ai monaci, con grande cura alla loro condotta morale e ascetica[186] .

6. San Paolino di Nola

Nato nel 354-355[187] a Burdigala, signore gallo-romano tra i più abbienti dell’impero, formato ad una delle scuole più prestigiose dell’Occidente[188] , senatore, console e infine governatore della Cam-pania[189] , introdusse il monachesimo martiniano in Italia, essendo amico carissimo di san Martino di Tours[190].

Nonostante i suoi alti incarichi, sentì il richiamo ad un cristianesimo più autentico, anche a seguito dell’esperienza di un miracolo cui assisté durante una celebrazione liturgica a Nola, e si impegnò in opere caritative. Il matrimonio con Terasia, donna modello[191] , non lo distrasse dall’ardore cristiano e dalla frequentazione di uomini di Chiesa, quali Delfino vescovo di Burdigala, Sulpicio Severo e san Martino vescovo di Tours, che lo guarì da una malattia ad un occhio[192] ; incontrò anche sant’Ambrogio, col quale intrattenne una corri-spondenza[193].

Scosso dal triste assassinio del fratello si decise definitivamente per la vita ascetica, ritirandosi nelle sue proprietà spagnole, assieme alla moglie[194].

Ivi consacrava lunghe ore alla preghiera, allo studio della Sacra Scrittura e della teologia, nonché alla composizione di poemi spirituali. I due sposi non avevano rinunciato alla vita matrimoniale e secolare, passo cui approdarono a seguito della morte del loro figlio primogenito Celso, appena neonato[195] , incoraggiati in questo abbandono di ogni bene da Girolamo[196].

Il giorno di Natale 393 (o 394), nella cattedrale di Barcellona, fu acclamato e istituito sacerdote, alla condizione, posta da san Paolino, di non essere incaricato in alcuna chiesa precisa[197]. A questo punto, in partenza con Terasia per Nola, volle essere guidato da una regola, e l’unica da lui reperibile fu quella di Marmoutier, regola che probabilmente non è stata mai scritta da san Martino di Tours, bensì dal suo amico e biografo Sulpicio Severo, secondo i testimoni[198].

L’indumento essenziale era la tunica di pelo di cammello, che Sulpicio Severo inviò apposta al suo corrispondente[199] , la capigliatura era rasa, l’alimentazione consisteva in un solo pasto, come nei monasteri d’Oriente, e il cibo principale il pane; il vino era ammesso a tavola, salvo nei giorni di penitenza[200]. L’abate non volle separare la vita dei monaci da quella dei poveri dell’ospizio che egli aveva fatto erigere a Nola, così eresse le celle monastiche sopra le stanze dei poveri, ciò segnò una rottura con l’uso martiniano delle capanne sparse e rafforzò il carattere cenobitico della comunità, tenuta alla recita del vespro la sera, del mattutino e delle lodi nella seconda metàdella notte. Paolino non ricusava il lavoro manuale. Coltivava, infatti, un orticello, ma era dedito piuttosto al lavoro intellettuale[201] e, sulla scorta dei consigli di san Girolamo[202] , curava anche nei suoi monaci l’istruzione biblica e il retto senso della fede[203].

In contrasto con la povertà del monastero, fece erigere una chiesa grandiosa per la gloria di Dio e una basilica sontuosa in onore di san Felice[204].

Restò sempre in relazione con tutta la Chiesa, nei suoi più illustri e sommi rappresentanti, tra cui sant’Agostino e san Girolamo[205] , Rufino che rappresentava per l’abate di Nola uno dei più perfetti conoscitori del monachesimo orientale[206]. Inoltre, era direttore spirituale di Melania e co-fondatore, con lei, dei monasteri di Gerusalemme[207].

Alla morte di san Paolo, vescovo di Nola, nel 409, Paolino, suo ammirato amico, fu designato come successore[208] ; san Paolino accettò, non senza un certo turbamento della sua vita contemplativa, ma riuscendo ugualmente a mantenere fede all’impegno ascetico intrapreso, sull’esempio di san Martino di Tours. Come vescovo protesse e ottenne la liberazione dei suoi fedeli durante l’invasione di Alarico[209]. San Paolino di Nola morì nel 431[210].

7. Il monachesimo del Giura

Conosciamo gli inizi del monachesimo del Giura specialmente grazie alla Vita Sanctorum Patrum Iurensium Romani, Lupicini, Eugendi[211] , scritta da un anonimo, con tanta probabilità discepolo ed amico di sant’Eugendo.

San Romano e san Lupicino erano fratelli di sangue. Nacquero in un luogo a noi ignoto della Sequania[212] , alla fine del IV secolo. All’età di quasi trentacinque anni, san Romano si fece monaco sotto la direzione di Sabino, abate di un monastero a Lione[213]. Finito questo noviziato monastico, prendendo con sé „Vite dei Padri” e le Institutiones coenobiorum di san Giovanni Cassiano[214] , si stabilì nelle foreste del Giura in una località chiamata Condadisco (più tardi sarà chiamata: Condat) [215] , alla confluenza dei fiumi Tacon e Bienne[216].

Anche suo fratello, Lupicino, decise di vivere da monaco in accanto a suo fratello[217]. Questa piccola comunità godette presto di molta stima nella zona attirando anche tante nuove reclute[218]. In tal modo, poco prima del 445, fu fondato il monastero di Condadisco, che in seguito venne chiamato di Saint-Oyand e poi si trasformo nel centro di Saint-Claude[219]. Qualche anno più tardi[220] , i due fratelli fondarono il monastero di Laucone (Lauconnus) [221] , noto poi come Saint-Lupicin[222]. Nel medesimo tempo, Romano e Lupicino fondarono un monastero femminile[223] che si chiamò Balma (La Baume) e di cui la superiora era la loro sorella[224]. In quel monastero i due fratelli fecero costruire una basilica nella quale venivano sepolte le monache del monastero. Anche san Romano fu sepolto in essa[225] e quel posto venne chiamato Saint-Romain de la Roche.

Intorno alla metàdel V secolo, il monastero di Laucone contava centocinquanta monaci e quello femminile di Balma centocinque religiose[226]. Per tale motivo, nella regione dei Vosgi e in terra germanica furono fondati altri monasteri diretti da Romano e Lupicino[227].

Questi due fratelli di sangue ressero insieme tutti i loro monasteri, ma essi stessi erano alquanti diversi per carattere. San Romano era un monaco contemplativo, umile, mansueto, buono d’indole, indulgente[228]. Perciò, per quanto riguarda la logica umana, egli era troppo indulgente per dirigere un cenobio. Ciò nonostante, il fratello, san Lupicino, ne compensava efficacemente. Infatti, il suo carattere era energico, rigoroso, intransigente[229]. Era, in una parola, un grande asceta e penitente[230]. Quando morì san Romano, nel 463, san Lupicino divenne l’unico abate di tutti i monasteri[231].

Dopo di lui, cominciò ad essere abate il terzo dei padri del Giura, sant’Eugendo[232]. Egli nacque, verso il 450[233] , vicino al villaggio di Isarnodorum[234] e, ancora tenero bambino di sette anni[235] , fu affidato da suo padre, che era presbitero in quel villaggio[236] , alla cura di san Romano e di san Lupicino[237]. Sant’Eugendo, con il passare del tempo, divenne un monaco perfetto. Una volta entrato per farsi monaco, non uscì mai dal monastero[238]. Vestiva poveramente, similmente ai contadini del luogo[239]. Indossava sempre la stessa tunica e si serviva della medesima cocolla, finché non si consumavano del tutto[240]. Per motivi di modestia, non volle essere ordinato presbitero, sostenendo che è meglio che l’abate non sia prete[241].

Alla morte dell’abate Minasio, successore immediato di san Lupicino, sant’Eugendo a stento accettò di prendere il suo posto nella direzione della comunità di Condat[242]. Operatore di molti miracoli[243] , stimato dalla gerarchia ecclesiastica locale[244] , egli resse santamente e prudentemente il monastero[245]. Morì il 1° gennaio del 510[246] , all’età di sessanta anni e sei mesi[247].

Come sostiene G.M. Colombás, „non sembra che nei monasteri del Giura vigesse una regola scritta durante il V secolo” [248]. Ciò può essere anche dedotto o, almeno, suggerito, dalla stessa Vita SS. Patrum Iurensium[249]. Infatti, gli stessi santi padri fondatori – Romano, Lupicino ed Eugendo – con la loro santità e saggezza monastica gettarono le fondamenta nel Giura di una forma peculiare di vita ascetico-monastica che non ricalca in modo servile né il primissimo movimento monaco orientale come tale, né i più antichi monasteri in Gallia[250].

I monasteri fondati da questi tre santi asceti erano diretti da un abate (abbas) o preposito (praepositus), che veniva aiutato, a sua volta, da un co-abate (coabbas) e da diversi padri governatori (patres gubernaculi). Un economo, invece, si occupava dei beni temporali[251]. Inizialmente sia la comunità monastica di Condat sia quella di Laucone era composta da gruppi di eremiti. Soltanto sant’Eugendo impose ai religiosi di vivere da cenobiti in un’unica casa con un unico refettorio e oratorio. Persino tutti i monaci dovevano dormire insieme in un comune dormitorio[252].

8. San Cesario di Arles

Fonti per conoscere la vita di san Cesario sono 1) la Vita Sancti Caesarii[253] , scritta da più persone negli anni successivi alla morte di Cesario: tre vescovi (il più importante di essi fu Cipriano di Tolone, discepolo di san Cesario, dal lui ordinato vescovo di Tolone, prima del 515[254] ), un sacerdote e un diacono; 2) alcuni documenti ufficiali del suo ministero episcopale: i concili gallici di quel periodo da lui presieduti[255] e la corrispondenza di Cesario con i papi.

Dalle suddette fondi apprendiamo che san Cesario nacque nel 470 nel territorio della città di Cabillon (Chalon-sur-Saône) sotto la dominazione burgunda. Proveniva probabilmente da famiglia facoltosa, dato che possedeva un certo numero di schiavi[256]. Ebbe una formazione culturale mediocre[257]. All’età di diciott’anni, Cesario chiese al suo vescovo Silvestro (484-526) di poter diventare chierico e così per circa due anni rimase nella gerarchia della Chiesa cittadina[258]. Ciò nonostante veniva particolarmente attirato dalla vita ascetico-monastica. Forse sarebbe diventato diacono e sacerdote della Chiesa di Chalon, se non avesse avuto occasione di conoscere il monachesimo egiziano[259]. Per tale ragione, nel 490-491, andò a Marsiglia all’abbazia di San Vittore, fondata da san Giovanni Cassiano. L’abate voleva tenere Cesario con sé, ma egli, avendo appreso che al largo di Cannes, nell’isola di Lerino, si era formata una comunità monastica così severa che sembrava inutile intraprendere il rischioso viaggio fino all’Egitto monastico, andò a Lerino ove fu accettato nel monastero dell’abate Porcario e ricevette la veste monastica[260]. Dopo un periodo di iniziazione monastica, a san Cesario fu assegnata la funzione di cellerario[261]. Era un segno di considerazione e di grande fiducia. Quest’incarico consisteva nel sovrintendere alla dispensa monastica: approvvigionare il monastero, ricevere gli ospiti, sorvegliare le cucine[262].

Cesario, se vedeva che alcuni digiunavano troppo, li forzava a mangiare più abbondantemente. Se giudicava che altri erano nutriti, tagliava loro i vitto. Alcuni monaci, però, iniziarono a lamentarsi e le loro proteste arrivarono all’abate che tolse a Cesario quest’ufficio. Ciò nonostante, per mostrare a Cesario tutta la sua benevolenza, Porcario diede a lui una cella separata che non lo separò del tutto dai doveri della vita comunitaria. Cesario, infatti, componeva e insegnava inni liturgi. Nella comunità monastica di Lerino Cesario ebbe, oltre che alla preparazione teologico-monastico-liturgica, anche una formazione culturale e intellettuale, basata anzitutto – per quanto riguarda l’esegesi biblica – su Origene e sant’Agostino; su sant’Ambrogio e lo stesso sant’Agostino per i temi teologici; e – per quanto concerne la dottrina ascetico-monastica – su san Giovanni Cassiano, su Porcario e su Fausto di Riez[263].

Nel monastero di Lerino Cesario edificò la comunità con la pietà, l’umiltà, la mortificazione, l’ubbidienza ed adoperò una regola di vita monastica molto severa: si sottopose agli eccessi dei digiuni e il suo organismo si debilitò gravemente. L’abate Porcario, quindi, lo costrinse, prima del 499, ad andare ad Arles. Qui fu accolto da una coppia di pii laici – Gregoria e Firmino[264].

Gregoria era parente dello stesso Cesario. La casa di Gregoria e di Firmino era a un tempo un centro culturale, un ricovero, una mensa dei poveri, un ospedale, una sede di catechesi. In quella casa, ad Arles san Cesario frequentò le lezioni del retore africano Giuliano Pomerio[265] , che era allora il più celebre retore di Provenza, e si avvicinò in tal modo agli pensatori profani e alla filosofia. Ciò nonostante tale esperienza fu di breve durata. Infatti, durante un sogno gli era apparso un serpente che lo divorava[266] , e così Cesario si convinse del pericolo causato dagli studi profani e abbandonò del tutto la cultura classica[267].

Il vescovo di Arles, Eonio (o „Eone”; parente di san Cesario) ottenne dall’abate Porcario l’autorizzazione a prendere Cesario come membro del suo clero. Eonio ordinò dapprima Cesario diacono e, in seguito, sacerdote. Cesario conservò, però, l’abito monastico e praticò le virtù monastiche[268].

Il vescovo Eonio affidò a Cesario l’amministrazione degli affari materiali della sua Chiesa: fu preposto alla gestione delle rendite ecclesiastiche, alla sacrestia della chiesa cattedrale, all’organizzazione degli aiuti ai poveri[269].

Nel 499 (o nel 500[270] ), a san Cesario fu affidata anche la direzione amministrativa di un monastero in suburbana insula ciuitatis[271] (probabilmente un quartiere sulla riva destra del fiume Rhône, l’odierna Trinquetaille[272] ), dato che l’abate non era adeguato a ricoprire la direzione di esso; Cesario aveva esattamente trent’anni. Per ristabilire in quel monastero la disciplina monastica, Cesario compose una regola incentrata su una rigida ubbidienza monastica e il monastero non tardò a farsi una rinomanza straordinaria[273].

Dopo più di tre anni di assoluto isolamento, il vescovo Eonio ritenne di aver trovato in san Cesario il suo successore[274]. Era, infatti, anziano e presentiva vicina la fine della sua vita. Il Santo, però, fuggì per essere poi ritrovato nella necropoli di Alyscamps, questa imponente area edificata sotto i bastioni del grande san Trofimo[275] , e nel 502 (o 503[276] ) san Cesario divenne vescovo di Arles[277].

La prima preoccupazione del nuovo vescovo-monaco-metropolita fu la formazione spirituale del clero. Volle che i chierici della città fossero assidui all’ufficio e tenne a che questi uffici fossero arricchiti di inni che egli stesso componeva o si faceva pervenire dalla comunità monastica di Lerino. Dato che la popolazione della sua diocesi proveniva da tutto il bacino del Mediterraneo, san Cesario fece cantare i salmi e, le antifone e i cantici sia in latino che in greco. Possiamo anche supporre che egli abbia introdotto nella liturgia la sequenza[278].

Il vescovo san Cesario fondò nella sua casa vescovile una scuola in cui i ragazzi studiavano lettere e canto, partecipavano alle liturgie della chiesa cattedrale e si preparavano a ricevere il battesimo. Egli stesso visitava le aule scolastiche, e interveniva nelle prove di canto[279].

La città si trovava allora sotto il governo del re visigoto Alarico II che era ariano, e il vescovo Cesario dovette subire tante situazioni politiche difficili, dalle quali, ciò nonostante, seppe trarre vantaggi per la Chiesa cattolica[280].

Nonostante la vita esemplare e santa, san Cesario fu sospettato di tradimento ed esiliato a Burdigala, in residenza obbligatoria[281]. Ciò avvenne ad opera di un tale Liciniano che addirittura faceva parte del clero di Arles. Infatti, nel 505, questo disgraziato chierico fece capire al re Alarico II che san Cesario cospirava contro lo stato insieme al re dei Burgundi, Gondebaudo. Così il vescovo di Arles fu arrestato ed esiliato. Cesario, però, ne approfittò per menare vita eremitica. Nel 506, però, san Cesario conquistò di nuovo la fiducia del re[282].

Stando a Burdigala, Cesario strinse rapporti con i vescovi della Gallia occidentale (Cipriano di Burdigala e Ruricio di Limoges). Anche nel 506, il vescovo di Arles cominciò la costruzione del monastero femminile di San Giovanni, che fu portata a termine nel 512[283]. Voleva che esso fosse edificato vicino a lui per poterlo istruire e proteggere. Ciò nonostante, voleva che sorgesse fuori della città di Arles, e ciò ovviamente per la tranquillità delle monache. Scelse, perciò, gli Alyscamps. L’opera gli stava tanto a cuore che vi partecipò egli stesso. Dopo la battaglia, però, di Vouillé, in cui il re Clodoveo sconfisse Alarico II, Franchi e Burgundi misero l’assedio proprio davanti alla città di Arles e demolirono il monastero quasi finito, per costruire delle trincee. Gli Ostrogoti, però, attaccarono gli assedianti, che dovettero cedere e ritirarsi. I costruttori, allora, ripresero la costruzione del monastero, che durò dal 508 al 513, data della consacrazione. La prima badessa di quel monastero fu santa Cesaria, sorella di san Cesario. Numerose vergini e vedove si unirono a lei. San Cesario diede a loro una regola, e papa Ormisda approvò la fondazione del monastero con una bolla del 514[284].

Alcuni mesi dopo la consacrazione del monastero, però, santa Cesaria morì e fu sostituita da un’altra Cesaria, chiamata la Giovane. Il numero delle monache salì allora a duecento. Alla morte di quell’ultima badessa, le successe santa Liliola e, poi, santa Rusticola. Ella era figlia di una nobile donna di Vaison, Clemenza, che aveva perso il marito e il primogenito dei suoi due figli. In precedenza, Rusticola era così bella, anche se aveva soltanto, all’epoca, cinque anni, che un cavaliere burgundo – Cheraone – decise di rapirla, volendo sposarla. Avvertita di ciò dalla madre, Liliola scrisse al vescovo Siagrio d’Autun e al re Gontrano per ricevere giustizia. Così, il guerriero rapitore dovette restituire Rusticola, che fu data a Liliola. Alla fanciulla piacque quella vita monastica austera e penitenziale: andava con le suore agli uffici e aveva imparato a memoria tutto il salterio e la gran parte della Sacra Scrittura. Rusticola era, inoltre, una monaca esemplare e virtuosa. Quando Rusticola chiese l’abito monastico, la badessa acconsentì. La madre di lei, però, ne fu adirata e cercò di conquistare la figlia con la bella villa e le ricchezze di Vaison. La causa fu allora affidata al vescovo Sapaudo. Secondo la legge, però, una vergine che aveva passato parecchi anni in un monastero non poteva essere mandata via contro la sua volontà. La madre Clemenza si ricordò, allora, di un sogno: san Cesario la vide nella sua casa con due colombe sulle ginocchia: ne aveva reclamata una; Clemenza gliel’aveva data ed egli l’aveva portata via. Clemenza dovette, perciò, dare a Dio la sua amatissima colomba. Dopo la morte di Liliola, Rusticola (all’età di diciott’anni) fu eletta badessa[285].

Dopo la vittoria degli Ostrogoti, san Cesario cominciò ad alleviare le disgrazie della guerra. Il vescovo pensò che il più necessario dei suoi compiti era il riscatto dei prigionieri. Vendette, quindi, tutti gli oggetti ecclesiastici di valore[286].

Da quando la regione passò alla dominazione degli Ostrogoti (508-536), san Cesario di nuovo fu accusato di tradimento e convocato a Ravenna dal re Teoderico (512-513), ma riuscì a dimostrare la sua innocenza e ottenne la liberazione della popolazione di Orange, che era stata fatta prigioniera[287]. San Cesario si recò, poi, da Ravenna a Roma ed incontrò papa Simmaco dal quale ottenne, nel 513, la conferma dei diritti metropoliti della Chiesa di Arles contro quella di Vienne (allora diretta dal vescovo Avito). In tal modo, san Cesario in veste di metropolita contava sotto la sua giurisdizione ventisei suffraganei[288]. A dir il vero, san Cesario fu in relazioni di sottomissione, ma anche di autorità morale, non solo con papa Simmaco ma con tutti i sette papi che governavano la Chiesa durante il suo episcopato: Simmaco nomina Cesario suo vicario per le Gallie e la Spagna (l’11 VI 514) [289] ; Ormisda, dopo la sua elezione, invia a Cesario una lettera di amicizia e di tutela e ingiunge a sant’Avito, vescovo e metropolita di Vienne, di riunire un concilio; san Felice IV e san Bonifacio II si congratulano con san Cesario per la sua sana dottrina cattolica circa la grazia; papa Vigilio lo designa d’imporre al re franco Teodeberto – colpevole d’incesto – una penitenza[290].

San Cesario, inoltre, era in corrispondenza con tanti altri vescovi dei quali non era il metropolita. Molti di questi gerarchi vengono a san Cesario per ricevere dei consigli. Un giorno è san Leobino, abate dell’Angiò, che viene a dire a san Cesario che volle farsi monaco a Lerino, ma il vescovo di Arles lo rispedisce a dirigere la propria abbazia[291].

Nel 514, papa Simmaco, come abbiamo già detto, confermò a Cesario i privilegi di vicario della Sede Apostolica per la Spagna e per la Gallia. Da quell’anno, quindi, Cesario esercitò un influsso sempre più maggiore su tutta la Gallia, presiedendo, tra l’altro, cinque concili provinciali. Il primo di essi fu riunito ad Arles, il 6 giugno del 524, per studiare le applicazioni dei canoni anteriori sulla disciplina ecclesiastica e quelle della pastorale nelle parrocchie rurali[292]. Il secondo fu convocato a Carpentras, il 6 novembre del 527, per giudicare prevalentemente Agrezio, vescovo di Antibes, che aveva trasgredito le decisioni conciliari affrettando l’ordinazione di un sacerdote: poiché Agrezio non venne, fu sospeso dalle funzioni liturgiche per un anno[293]. Il 3 luglio del 529, il concilio d’Orange si pronunciò sulla grazia contro un certo numero di chierici che professavano dottrine più o meno pelagiane[294]. Il 5 novembre del 529, san Cesario fece riunire un concilio a Vaison, contro la prassi della Chiesa di Roma, che i sacerdoti delle parrocchie potevano predicare e che, in caso di loro impedimento, i diaconi potevano leggere le omelie dei Padri[295]. Accrebbe così l’importanza dei preti e si preoccupò della loro formazione. Stabilì per i sacerdoti non ammogliati una specie di vita religiosa condivisa con il vescovo, con pasti comunitari accompagnati dalla preghiera e colloqui sui testi letti. Decise che ogni ordinando, prima dell’ordinazione, doveva leggere quattro volte l’Antico e il Nuovo Testamento[296]. Ingiunse ai parroci di formare scuole parrocchiali, in cui fosse data una seria istruzione dottrinale, scritturistica e liturgica. Gli alunni usciti da queste scuole potevano sia vivere liberamente da laici, sia sposarsi e divenire chierici minori, sia abbracciare la continenza e accedere al diaconato e al presbiterato. Per quanto riguarda la liturgia, fu decretata l’aggiunta del Gloria Patri e del Sicut erat: „In accordo con Roma, con l’Oriente, con tutta l’Africa e l’Italia, si reciterà alla fine di ogni salmo, cantico e versetto, il Gloria Patri e il Sicut erat” [297]. L’ultimo concilio, infine, quello di Marsiglia, tenuto il 26 maggio del 533, regolò soltanto il caso di un vescovo accusato di scandalo pubblico[298].

Nel 534, san Cesario ultimò definitivamente la regola delle monache, e nel 536 vide passare Arles sotto il governo dei cattolici, con il franco Childeberto I. Nell’ultimo anno della vita (543) la salute di san Cesario diminuiva sempre di più: perdeva di continuo conoscenza in pubblico. Come diceva, aspettava per morire la festa del suo amato sant’Agostino. Quando questo giorno si avvicinò, Cesario volle essere trasportato all’ora dell’ufficio presso le sue monache di San Giovanni. Esse furono molto commosse tanto che la salmodia era interrotta continuamente dai singhiozzi. San Cesario congedò per sempre la badessa Cesaria e rivolse alle monache l’esortazione ad essere fedeli alla regola, quindi impartì a tutte la benedizione. Vicino al letto del moribondo si erano riuniti alcuni vescovi della sua provincia ecclesiastica, i sacerdoti, i diaconi, gli amici. San Cesario morì proprio il 27 agosto 543, come aveva desiderato, la vigilia di sant’Agostino, nel settantaquattresimo anno di età e quarantunesimo di episcopato, e fu sepolto nella basilica di Santa Maria[299].

Vediamo ora l’operato di san Cesario. Anzitutto, era un vero e proprio pastore d’anime, fondatore di istituzioni di carità e di chiese, legislatore liturgico e monastico della sua regione ecclesiastica: compose due regole, una per monaci e una per monache, e fondò diversi monasteri. Inoltre, trattò problemi di carattere di organizzazione e amministrativo della Chiesa, definendo i compiti delle diverse categorie del Popolo di Dio. Intervenne anche su questioni teologiche del suo tempo ed ebbe un’importanza di primo piano nella stabilizzazione dei rapporti ufficiali della Chiesa con i nuovi regni barbarici[300].

Queste attività non gli fecero abbandonare gli infelici e i poveri. Infatti, aveva affidato a un diacono l’organizzazione delle opere di carità. Egli stesso aveva diretto la costruzione di un ospedale attiguo alla sua cattedrale, con una novità – con letti! e, inoltre, con infermieri, medici e cappellani. Inviava anche questi ultimi a visitare le case per trovare coloro che celavano le loro malattie e per trasferirli nell’ospedale[301].

L’attività di predicatore, rivolta non soltanto ai fedeli, ma anche ai monaci e alle monache, si espresse soprattutto nei sermones[302]. Infatti, san Cesario predicava molto, dato che i libri di quell’epoca erano rari e l’ignoranza religiosa profonda ed esasperante. Le sue prediche, però, erano brevi. Ciò nonostante, succedeva, a volte, che alcuni fedeli, annoiati, si alzavano per uscire. Allora, san Cesario li faceva ritornare. Rimproverava apertamente i ritardatari e coloro che non si ingino-cchiavano o restavano in piedi nei momenti solenni in cui bisognava stare in ginocchio, fustigava coloro che parlottavano durante la sua predica, verificava le loro conoscenze teologiche, visitava senza preavviso le parrocchie[303].

Il metodo di lavoro di san Cesario, che si serviva degli estratti di vari autori, prevalentemente di sant’Ambrogio e di sant’Agostino, aveva fatto sì che già alla fine del Medioevo la sua produzione letteraria fosse diventata anonima. Le sue opere furono recuperate soltanto alla fine dell’ottocento dal benedettino G. Morin[304].

La Regula monachorum, rivolta ai monaci del monastero di Trinquetaille, di cui era stato abate, e contenente solo sei pagine (ventisei precetti), sarebbe stata da lui dettata a suo nipote, il prete della cattedrale, Teridio[305] (o Tetradio[306] ). È un’opera del Cesario riformatore, eletto in un monastero già esistente e considerato dal vescovo di Arles, Eonio, in decadenza. Questa regola fu composta nel 500 ancora da Cesario abate, e pubblicata probabilmente nel 503 da Cesario vescovo di Arles per tutti i monasteri della sua giurisdizione[307]. La regola, inoltre, non è un semplice regolamento che potrebbe essere mutato da un altro superiore, ma costituisce una valida e duratura legge spirituale[308].

Il primo articolo della Regula monachorum di san Cesario stabilisce per la prima volta in assoluto il voto di stabilità e subito dopo quello di povertà. Il monaco che entra nel monastero deve non solo aver rinunciato a tutti i beni materiali, ma anche deve esibire un atto legale che certifica che non possiede alcuna proprietà. Prima, infatti, i figli dei ricchi portavano con sé biancheria, mobili, piccoli oggetti (tutto per uso personale), ecc. In più, il candidato non poteva lasciare i suoi beni temporali a chiunque, ma soltanto ai genitori (solo se erano poveri) o doveva destinarli ad opere buone o al monastero in cui sa faceva monaco[309].

Un’altra novità: san Cesario fece sostituire le celle con il dormitorio. Infatti, dal momento che tutti erano uguali e non avevano mobili od oggetti personali, le celle personali caddero in disuso. Inoltre, la formazione dei monaci chierici avveniva soltanto nel monastero di Arles, vicino alla cattedrale vescovile[310].

L’autorità dell’abate fu rafforzata: vigilava a far rispettare la disciplina e l’armonia fra i fratelli; se qualcuno avrà offeso la carità, doveva chiedere pubblicamente perdono. L’abate custodiva anche la spiritualità monastica con conferenze ascetiche. A lui spettava fornire a ognuno ciò che gli spettava[311].

Secondo la regola, i monaci non potevano comunicare con il mondo, neanche per lettera, a meno di un permesso dell’abate. La clausura era strettamente osservata e le donne non potevano assolutamente entrarci. Il silenzio era stabilmente rispettato in tutti i luoghi comuni. I monaci non mangiavano mai la carne (eccetto i malati). Durante i pasti si leggeva sempre. Da settembre a Natale e poi dalla settuagesima a Pasqua, si osservava il digiuno quotidiano, eccetto la domenica. Da Pasqua sino a settembre, invece, si digiunava soltanto due giorni la settimana: il mercoledì e il venerdì [312].

Per quanto concerne l’ufficio divino, la regola parla soltanto di quello notturno. Esso è duplice: le „vigilie” (attuale ufficio delle letture) e i „mattutini” (attuali lodi). Durante la settimana, dal mesi di ottobre a Pasqua, le vigilie comprendevano due notturni e tre lezioni, tra le quali era inserito un tempo di orazione; la regola non precisava la recita dell’ufficio tra Pasqua e ottobre. Il sabato, la domenica e i giorni festivi, le vigilie avevano dodici salmi con tre antifone e si leggevano tre letture scritturistiche: la prima di un profeta, la seconda tratta da san Paolo, e la terza dal Vangelo. I monaci restavano seduti per le due prime letture e stavano in piedi per il Vangelo. Tutte le letture erano lunghe: sei fogli ciascuna. Il lettore faceva una pausa a metàdella lettura per lasciare ai monaci tempo per una meditazione. Le lodi domenicali venivano recitate subito dopo le vigilie ed erano composte dai salmi 144 e 135, dal Cantico di Mosè, dal salmo 145, dal Cantico dei tre giovani nella fornace e dai salmi 148, 149, 150. L’ufficiatura terminava con il Te Deum, il Gloria in excelsis Deo e con un capitellum[313].

Prima dell’ora terza, tutti i monaci si dedicavano alla lettura della Bibbia (prevalentemente). Dopo l’ora terza, invece, andavano a lavorare, secondo l’ordine dell’abate. Ogni lavoro doveva essere compiuto volentieri, con spirito di gioiosa obbedienza e reciproco aiuto. Quando i monaci sentivano il segnale dell’ufficio divino, lasciavano tutto e andavano a cantare le lodi a Dio. Quando, però, un monaco tardava, riceveva un colpo di ferula sulla mano[314].

Gli Statuta sanctarum virginum, cominciati verso il 512 (alla data della fondazione del monastero di San Giovanni), sono molto più ampi e dettagliati e, successivamente, furono più volte ritoccati per consenso dello stesso san Cesario e così, nel 534, furono del tutto stilati. Questa regola è stata l’opera di un fondatore atta a prevenire ogni disordine e ad assicurare alla vita comunitaria solide e definitive fondamenta. La redazione di una regola concepita per delle monache fu, all’epoca, un fatto innovativo e suscitò interesse ed ammirazione (persino da parte di papa Ormisda, come testimonia la sua lettera indirizzata a san Cesario). Tra le fonti di questa regola femminile troviamo le opere monastiche di san Giovanni Cassiano, la tradizione ascetica dell’isola di Lerino, la regola maschile detta di sant’Agostino. Ciò nonostante, bisogna anche sottolineare l’impronta originale dello stesso vescovo di Arles, sia per quanto riguarda le norme generali di comportamento (la stretta clausura, al vita comunitaria, l’importanza della lettura e della carità), sia nei diversi dettagli (come, ad esempio, l’altezza dell’acconciatura delle monache) [315].

Una simile regola per le monache era davvero necessaria. Infatti, i primissimi conventi femminili della Gallia del sud somigliavano più a pensioni per zitelle che non a luoghi di rinuncia e di contemplazione. Ogni monaca, infatti, portava nella sua cella il suo mobilio e le sue abitudini, i vestiti e l’arredamento del letto, persino la domestica e le ricette di cucina. Le monache non uscivano dalla clausura ma, in compenso, ricevevano frequentemente i visitatori che portavano ad esse regali. Per questa ragione, dato che mancava proprio una vera regola monastica, san Cesario ne scrisse una, prima ancora di riunire le sue monache, e affidò la sorella alla comunità di Marsiglia, affinché imparasse la vita veramente claustrale[316].

Ora, vediamo più da vicino gli Statuta sanctarum virginum. Questa regola femminile comprende due parti: la prima parte è la regola primitiva, data alle religiose all’inizio della fondazione del monastero di San Giovanni (ossia, verso il 512[317] ). Questa prima parte contiene quarantatré articoli. La seconda parte – chiamata „Ricapitolazione” – è stata aggiunta per risolvere diverse difficoltà pratiche. Questa seconda parte contiene 19 articoli[318].

Degli scritti monastici di san Cesario possediamo anche i sei Sermones ad monachos e le Ad sanctimoniales epistulae (la Coegisti e la Vereor) indirizzate alla sorella Cesaria e alla sua comunità monastica, ossia al monastero di Arles dedicato a San Giovanni[319].

Esiste anche l’Epistula hortatoria ad virginem Deo dicatam. G. Morin, però, non la considera scritta da san Cesario; essa dev’essere, forse, attribuita al nipote Teridio[320].

9. Continuatori dell’opera monastica di san Cesario d’Arles

L’influsso di san Cesario sul monachesimo fu considerevole e durò per molte generazioni. Ciò nonostante, la sua Regula non ebbe tanta diffusione fuori della Provenza. Infatti, per quanto riguarda la Gallia meridionale, i cenobi che vivevano secondo di essa perirono già un secolo dopo e ciò a causa delle incursioni dei Saraceni. Dopo la liberazione, poi, era già conosciuta ed apprezzata un’altra regola, quella di san Benedetto di Norcia. Dobbiamo anche dire che lo stesso san Benedetto aveva preso un certo numero di elementi dalla regola di san Cesario[321].

Le comunità monastiche formate da san Cesario diedero alla luce personalità ecclesiastiche di alto rango. Uno dei più famosi di esse fu san Cipriano di Tolone. Egli si formò nella comunità monastica di Arles ed era molto apprezzato a causa della sua scienza. Infatti, morto, probabilmente nel 524[322] , il vescovo di Tolone, al suo posto fu eletto Cipriano che guidò quella Chiesa per ben ventidue anni. San Cipriano di Tolone compose – sotto la richiesta di Cesario il Giovane[323] – la prima parte della Vita S. Caesarii episcopi Arelatensis, nella quale inserì tutto ciò che sapeva sul vescovo di Arles. Avendo, però, paura di aver tralasciato qualche cosa, spedì il manoscritto ad un suo amico, a san Firmino di Uzès, anch’egli allievo di san Cesario[324].

San Firmino, figlio di un prefetto delle Gallie – Tonanzio Ferreolo – nacque verso il 509 nei dintorni di Narbona, ove ricevette una solida formazione culturale. Nel 528, si trasferì presso Ruricio, zio paterno che era vescovo di Uzès, che lo educò nelle scienza ecclesiastiche per sette anni e poi lo ordinò sacerdote. Nel 529, Ruricio morì e san Firmino, all’età di ventott’anni, divenne suo successore. In quel periodo, la diocesi di Uzès fu distaccata dalla metropoli di Bourges e unita a quella di Arles. San Firmino apprezzava molto il metropolita san Cipriano e i due divennero amici. San Cipriano, perciò, chiese a Firmino di correggere e perfezionare la biografia di san Cesario[325].

Quando san Cipriano di Tolone ottenne il suo manoscritto emendato da san Firmino, non volle pubblicarlo e lo spedì ad un terzo discepolo di san Cesario – Vivenzio, un vescovo di cui non conosciamo la sede. Vivenzio, però, decedette prima di aver soddisfatto del tutto alle esigenze del vescovo di Tolone, e così san Cipriano si rivolse a due ecclesiastici di san Cesario – al sacerdote Messiano, che era stato segretario del vescovo, e al diacono Stefano. Il sacerdote Messiano aggiunse, quindi, i suoi ricordi circa san Cesario, ma essi non erano molto significativi o importanti. Il diacono Stefano, invece, redasse la maggior parte del libro secondo della Vita[326].

Quando, nel 514, il sacerdote Messiano andò da papa Simmaco per presentare una domanda in favore della diocesi di Arles, si recò con lui un abate che si chiamava Egidio. Ora, l’unico abate che, in quel periodo, portava questo nome in quella regione fu quello che era nato in Grecia e che poi venne in Provenza. L’ordine cronologico degli eventi a questo proposito rimane, però, molto discusso: a) Egidio avrebbe, al suo arrivo, costruito un romitaggio presso il Piccolo Rodano, a quattro leghe da Arles; di seguito, diventato abate della comunità, sarebbe stato chiamato da san Cesario al servizio pastorale; b) Egidio si sarebbe, invece, subito unito a san Cesario e sarebbe diventato abate di uno dei monasteri di Arles; poi, sarebbe fuggito in una solitudine e qui sarebbe molto circondato da suoi. Il secondo schema, a dir il vero, quadra meglio con i racconti degli autori antichi, che collocano all’ultimo la solitudine che diverrà Saint-Gilles e fanno soggiornare in precedenza Egidio presso Arles[327].

Conosciamo tanti altri ecclesiastici famosi formati nel monastero ad Arles. Uno di essi fu san Teuderio che fondò varie comunità monastiche sul territorio della diocesi di Vienne. Qualche studioso, però, fa di lui discepolo di sant’Eufronio d’Autun. Niente vieta, ciò nonostante, che egli sia passato, prima di istituire la sua comunità, da Arles ad Autun[328].

In una delle lettere, Floriano, abate presso Milano, si dichiara discepolo di san Cesario d’Arles[329].

Paragonando la regola di san Cesario con la riforma operata da sant’Eugendo a Condat, possiamo pensare che anche il riformatore del Giura utilizzasse per i suoi monaci la regola del vescovo di Arles[330].

Il monastero di Saint-André di Villeneuve, vicino ad Avignone, ha un’origine poco chiara, ma una cronaca vi fa morire, nel 586, una certa santa Cesaria, monaca, che deve appartenere alla famiglia di san Cesario[331].

Anche Giuliano Pomerio sembra essere collegato con san Cesario di Arles: africano, nato in Mauritania, venuto nella Gallia Narbonese, studiò retorica ad Arles e divenne così – come sappiamo – professore di san Cesario nel periodo in cui egli si trasferì da Lerino ad Arles[332]. Giuliano Pomerio, poi, con tanta probabilità si fece monaco in un monastero di cui divenne abate. Infatti, tale costatazione si basa soltanto su due lettere di Ruricio di Limoges, indirizzate proprio abbati Pomerio[333]. Ora, possiamo chiedere se ciò fosse avvenuto sotto l’influsso di san Cesario. Questo monastero sarebbe quello dell’isola collocata a sud di Arles e riformato dallo stesso Cesario. Pomerio gli sarebbe, quindi, succeduto nella guida dell’abbazia quando San Cesario divenne vescovo di Arles[334].

Molti monasteri maschili, che furono fondati nelle diocesi vicine ad Arles, hanno un’origine oscura, e che si può collocare prima della morte di san Cesario. Per esempio, il monastero di Bevons (oggi Bodon), nella territorio della diocesi di Sisteron, il cui primo abate fu san Mario, eletto nel 509, ossia quando il vescovo di Arles aveva riformato il monastero maschile della sua città e stava costruendo il monastero femminile. San Donato († 535), un discepolo di san Mario, edificò a poca distanza di lì il monastero di Notre-Dame di Lure, che pare sia stato un raggruppamento di eremiti. Abbiamo ancor meno informazioni sul monastero di Pignans, nella diocesi di Fréjus, fondato nello stesso periodo, che adoperò la regola di sant’Agostino, e su quello di Saint-Martin di Castillon, nella diocesi di Apt, che fu una filiale di Ménerbes. Forse bisognerebbe escludere dall’influsso di san Cesario l’importante monastero di Saint-André di Agde, dal momento che sembra che le sue origini risalgano alla fine del V secolo. Ma, in seguito, tale influsso è possibile, perché il suo fondatore – san Severo, vissuto prima da eremita, poi da anacoreta – divenne alla metàdel VI secolo l’abate di una comunità di trecento monaci. E possiamo supporre che il vescovo di Arles non sia stato estraneo all’ingrandimento di questo monastero[335].

Il più famoso tra i discepoli monastici di san Severo fu san Massenzio: nato ad Arles intorno al 450, si fece monaco in età molto giovane nel monastero di Saint-André. La grandezza delle sue virtù causò una così grande ammirazione che Massenzio fuggì per non peccare di orgoglio. Si fece eremita nella Narbonese, ma poi dovette spostarsi e fuggire altrove, perché scoperto dalla gente nel Poitou, ove pensava di trovare una tranquillità eremitica. Dal momento che ancora una volta divenne spettacolo per i curiosi, Massenzio chiese di essere ammesso nel monastero dell’abate Agapito, al quale poi successe. Dato che aveva accettato tutto ciò solamente a stento, decise presto di vivere da recluso sul territorio del monastero. I monaci accettarono tale situazione, a condizione però che egli rimanesse abate titolare del loro monastero e li dirigesse dalla reclusione. Massenzio morì nel 515. L’abbazia e la cittadina ricevettero il suo nome[336].

Per quanto riguarda i primissimi monasteri femminili nella Gallia meridionale, le certezze sono ancora più deboli. Possediamo, in proposito, una lettera di san Cesario di Arles indirizzata ad una badessa[337] , dalla quale possiamo dedurre che ella fosse sua figlia spirituale e che guidasse una comunità monastica di cui il vescovo di Arles era il fondatore[338]. Infine, il monastero di Saint-Pierre du Puy, ad Orange, che era benedettino nel XII secolo e cisterciense nel XIII, fu stabilito dallo stesso san Cesario sul monte Eutropio, prima che fosse spostato all’interno delle mura della città [339].

Durante il governo monastico della badessa santa Liliola, una lontana discepola di presentò al convento di San Giovanni, affinché fosse iniziata alla regola di san Cesario: era Radegonda, moglie separata di re Clotario, che, costretta a sposarsi, aveva infine ottenuto che le si rendesse la libertà, e che nel 415 aveva fondato, a Poitiers, il monastero di Santa Croce. Radegonda, cercando una regola che potesse assicurare (alle principesse e alle nobildonne che l’avevano seguito nel chiostro) sia la disciplina monastica che una certa moderazione, aveva sentito dell’equilibrio in cui vivevano le monache di Arles. Così, nel 568, Radegonda chiese a Liliola una copia della regola di san Cesario e, dopo averla letta, venne con la badessa Agnese ad Arles per viverla e im-pararla. Di seguito, di ritorno a Poitiers, Radegonda ed Agnese adottarono questa regola per la loro comunità [340].

Un altro continuatore dell’opera monastica di san Cesario fu, nel VI secolo, sant’Aureliano († 16 giugno del 551), il secondo successore di san Cesario di Arles, dove rimase soltanto dal 546 alla morte. Ciò nonostante, in questo breve periodo, egli fondò ad Arles due monasteri: prima di San Pietro e San Paolo (maschile) [341] , a cui diede come abate Fiorentino, che aveva all’epoca sessantacinque anni e che sarebbe morto cinque anni dopo (nel 553) [342] e, poi, di Santa Maria (femminile). Aureliano scrisse due nuove regole: la Regula ad monachos[345] e la Regula ad virgines[344]. Queste due regole si ispirano prevalentemente a san Cesario[345] e, secondariamente, a sant’Agostino e a san Giovanni Cassiano. Può essere anche visto in esse un influsso di san Benedetto[346].

La „Regola” di sant’Aureliano rafforza la clausura applicandola ai monaci con la medesima rigidità che alle monache; persino la propria madre non può accederci[347]. Anche per quanto concerne i cosiddetti oblati vediamo una rigidità maggiore rispetto alla „Regola” di san Cesario. Infatti, il vescovo di Arles accettava gli oblati a cominciare dai sei anni; Aureliano, invece, ne richiede dieci o dodici[348]. Mitiga, però, l’astinenza per i monaci i quali nei giorni di festa i monaci possono mangiare il pesce[349].

Ma soprattutto sant’Aureliano di Arles ampliò e corresse notevolmente l’ufficio liturgico dei monaci. Lo divise in otto ore canoniche. Per evitare un tempo vuoto, Aureliano introdusse l’ora „seconda” [350] , che doveva preparare i religiosi al lavoro, e l’ora „dodicesima” [351] , staccata dal vespro e dalla „compieta”. Così abbiamo: il mattutino (all’aurora), la prima (tra le sei e le sette), la seconda (alle otto), la terza (alle nove), la sesta (a mezzogiorno), la nona (alle quindici), il vespro (alle diciotto), la dodicesima (verso le diciannove), e la compieta (prima di coricarsi).

Sant’Aureliano modifica anche l’ufficio del mattutino. Fuori del tempo pasquale, esso inizia con un cantico preso dalla Bibbia (la scelta è dell’abate); seguono otto salmi (42, 62 e i sei ultimi, da 145 a 150); poi un inno cantato (alternativamente Splendor paternae gloriae e Aeternae lucis conditor) e un capitolo; conclude il Kyrie eleison, cantato dodici volte[352]. Durante il tempo pasquale, l’ufficio è molto più vicino a quello di san Cesario. Prima vengono i salmi: 144, 42, 62, 135, il Cantico di Mosè, il salmo 145, il Cantico dei tre giovani e i tre ultimi salmi: 148-150, il che fa dieci parti liturgiche che hanno per antifona un „alleluia”, eccetto il salmo di apertura. L’ufficio finisce col Cantico Magnificat[353].

10. Conclusione

L’articolo ha presentato, in modo piuttosto dettagliato, il più antico movimento monastico latino in Gallia. Il suo più grande e pri-missimo iniziatore e promulgatore fu, senza dubbio, san Martino di Tours.

Il primissimo monachesimo in Gallia era di stampo cittadino. La presenza di questi monaci che vivevano in città era d’aiuto per il clero. Accanto a questo movimento monastico urbano dobbiamo anche ricordare le vergini consacrate che conducevano una vita cenobitica. Ci furono anche delle recluse.

Una figura simile a san Martino di Tour fu san Vittricio di Rouen. Divenuto vescovo, visse da monaco-vescovo. Combatté contro il paganesimo rurale. Il suo influsso oltrepassò i confini della provincia. Fondò almeno un monastero femminile e due maschili, e anche un monastero a Thérouanne. Durante i suoi viaggi pastorali cercava di insediare anche in diversi luoghi gruppi di monaci. Grazie all’azione di san Vittricio, nel nord delle Gallie, nelle terre di Boulogne, Artois e nelle Fiandre occidentali sorgevano numerosi eremi e cenobi.

Un altro importante propagatore del monachesimo gallico fu san Giovanni Cassiano. Natione Scytha, egli nacque intorno al 360 in Dobrugia. Andò in pellegrinaggio in Palestina e lì si fece monaco in un monastero di Betlemme. Fu attratto dalla fama dei monaci egizi. Ebbe modo di fare diverse visite ad altri gruppi monastici.

Ritornò in Palestina per ottenere il permesso di rimanere stabilmente in Egitto. Il suo soggiorno, però, durò fino al 400 circa. Poi venne a Costantinopoli ove san Giovanni Crisostomo lo ordinò diacono.

Giovanni Cassiano, incaricato dal clero fedele al Crisostomo, portò a Roma un’ambasceria al papa Innocenzo I. Nell’Urbe conobbe Palladio, Rufino e santa Melania la Giovane.

Ordinato prete probabilmente da Alessandro di Antiochia, e sbarcato a Marsiglia intorno al 415, chiese al vescovo Procolo ove potesse trovare un luogo per condurvi vita eremitica; invitato dal vescovo a fondare un monastero cenobitico, fondò il cenobio, detto Paradisus, che si trovava a sud dell’attuale Vieux Pont. In seguito, fondò il monastero femminile di San Salvatore, situato all’interno della vecchia cinta muraria della città. San Giovanni Cassiano morì a San Vittore intorno al 435.

Un altro grande propagatore del primissimo monachesimo gallico fu sant’Onorato. Quando egli fondò, nel 405, la comunità monastica di Lerino, nella Provenza esisteva solo il monastero di Embrun fondato da san Marcellino, intorno al 360, e costituito da una comunità clericale.

Non si conoscono esattamente la data e il luogo di nascita di sant’Onorato; si presume sia avvenuta nel 365 in Lorena o in Borgogna, da una famiglia della nobiltà gallo-romana; ricevette un’educazione elevata, cui volle unire la formazione alla fede.

Probabilmente nel 386, sentì la chiamata alla vita eremitica e si avviò in un asceterio sito nei possedimenti familiari, forse presso Cannes, seguendo la regola comune agli eremiti. Intorno al 394, si trasferì su isole, probabilmente le isole di Hyères, lasciandosi guidare da san Caprasio. In seguito, si spostò a Marsiglia e in Grecia, nella quale si costituì una laura essendo ormai aumentato il numero del gruppo.

Verso il 403, ritornò a Fréjus presso il vescovo Leonzio, cercava un’isola deserta sulla quale collocare la comunità, e la trovò nell’isola di Lerino.

Nel 427, Onorato fu chiamato sulla sede metropolitana di Arles. Fiaccato dalla malattia e allettato, sant’Onorato continuava a ricevere pellegrini. Non volle venir meno ai suoi impegni pastorali, neanche il giorno dell’Epifania del 430, quando si alzò per la celebrazione solenne. Otto giorni dopo morì, ma la sua opera continuò a vivere.

Un altro rappresentante del primissimo monastico gallico fu sant’Ilario di Arles. Egli nacque intorno al 401, ed era parente di sant’Onorato di Lerino. La Vita anonima di san Lupo di Troyes parla di una sorella di sant’Ilario, di nome Pimeniola, sposa dello stesso san Lupo. Inoltre, la medesima Vita sostiene che anche sant’Ilario fosse natio della Gallia Belgica, come san Lupo.

prima del 420, sant’Onorato decise di attirare sant’Ilario. Sembrerebbe, però, che sant’Ilario non volesse ascoltarlo, perché sant’Onorato ritenne necessario andare a conquistare sant’Ilario sul posto. Sant’Onorato iniziò a parlargli, ma egli non l’ascoltava. Quindi, sant’Onorato iniziò a pregare e partì senza averlo convinto. Nei due giorni che seguirono, una tempesta spirituale si abbatté su sant’Ilario ed egli si convinse e si fece monaco a Lerino.

Nel 427, sant’Onorato, fu eletto vescovo di Arles, e sant’Ilario lo seguì nella città episcopale. Ma l’amore della quiete monastica ebbe il sopravvento, per cui tornò a Lerino. Sant’Onorato vedeva in sant’Ilario il migliore dei suoi successori. Dunque, lo richiamò presso di sé. Ma appena sant’Onorato fu sepolto, sant’Ilario fuggì di lì, ma quando aveva ventotto anni, Cassio, comandante delle truppe romane, mandò un gruppo di soldati che lo ricondusse ad Arles.

La sua prima azione fu di fondare, presso il suo palazzo vescovile, un monastero in cui inviò i suoi chierici e si scelse una cella. Al primo monastero che aveva fondato, sant’Ilario ne aggiunse altri.

Sant’Ilario ebbe una parte di primo piano, nel 429, al concilio delle Gallie; presiedette i concili: di Riez, nel 439; di Oranges, nel 441; di Vaison, nel 442. Morì il 5 maggio del 449, all’età di quarantotto anni.

Anche sant’Eucherio di Lione proveniva dall’alta aristocrazia gallo-romana. Aveva sposato una certa Galla, dalla quale ebbe due figli. Dopo alcuni anni di matrimonio, però, decise di consacrarsi a Dio. Fu attirato da Lerino. Lo ricevette sant’Onorato sia come ospite sia come postulante, ma vi rimase poco tempo, perché ciò che l’attraeva era la vita eremitica. Si stabilì, quindi, sull’isola di Lera. I due sposi si stabilirono ciascuno in un romitorio.

Sant’Eucherio intrattenne una corrispondenza con sant’Onorato, san Paolino di Nola e con san Giovanni Cassiano. Quando, intorno al 435, morì il vescovo di Lione – Senatore – fu scelto a succedergli proprio sant’Eucherio.

Un altro monaco gallico, san Lupo di Troyes, apparteneva allo stesso ceto sociale. Nacque a Toul verso il 395. Intraprese la carriera di avvocato. Verso il 418, sposò Pinieniola. Sua moglie ed egli stesso scelsero di seguire i consigli evangelici. San Lupo scelse la comunità monastica di Lerino.

Nel 427, san Lupo dovette recarsi nella regione di Mâcon per concludere una questione d’eredità. Il vescovo di Troyes, sant’Orso, era appena morto. I delegati del clero comunicarono a Lupo la sua elezione. Lupo, però, condusse da vescovo una vita simile a quella dei rigidi monaci egiziani.

Nel 429, san Lupo fu incaricato dai Padri del concilio di Arles, di andare con san Germano d’Auxerre, in Bretagna a combattere l’eresia pelagiana.

Quando Attila marciò verso Troyes, Lupo gli tenne un discorso così convincente che gli Unni non distrussero la città. Dopo essere stato sconfitto, Attila chiese a san Lupo di accompagnarlo fino al Reno. Lupo acconsentì, ma quell’atto fu ingiustamente interpretato come intesa con il nemico e il vescovo fu deposto. Ne approfittò, però, per costruirsi un eremitaggio. Vi rimase soltanto due anni, perché fu richiamato in sede. Morì, nel 479.

Un altro monaco gallico, Vincenzo di Lerino, era di nobile stirpe e aveva ricoperto vari incarichi nell’amministrazione imperiale. È noto soprattutto grazie alla sua opera teologica: il Commonitorium.

Anche san Salviano era un aristocratico, nato a Colonia o a Treviri. Studiò a Treviri. Nel 427, uscì dal monastero di Lerino e passò al clero della diocesi di Marsiglia.

Pubblicò un’opera De virginitatis bono ad Marcellum presbyterum e quattro libri dell’Ad Ecclesiam. Scrisse, inoltre, importanti trattati teologici, dei quali il più importante è il De gubernatione Dei. Ma aveva anche scritto una quantità di altre opere, non pervenuteci. Morì a Marsiglia, nel 496, in qualità di prete della cattedrale.

San Massimo di Riez, un altro rappresentante del monachesimo paleocristiano gallico, nacque a Decomer presso Digne. Chiese l’abito a sant’Onorato. Fu uno degli anziani che aiutavano l’abate nel governo del monastero. Nel 427, sant’Onorato indicò san Massimo a succedergli nell’abbaziato. Quando, nel 432, morì san Leonzio, Massimo fu eletto alla sede di Fréjus. Massimo fuggì e per Fréjus fu scelto un altro vescovo. Nel 434, essendo vacante la sede di Riez, il suo nome uscì dalle urne. I capitolari giunsero in monastero, condussero l’abate nella cattedrale e l’ordinarono vescovo. San Massimo mostrò le stesse virtù che aveva praticato nel chiostro. Partecipò al concilio di Riez nel 439, di Orange nel 441, di Vaison nel 442, e al concilio di Arles (negli anni 449-461). Ignoriamo la data esatta della sua morte.

Fausto di Riez, terzo abate di Lerino (dal 433 al 457), nacque nella Britannia poco prima del 410. Verso il 424, si fece monaco a Lerino. Quando, nel 433, san Massimo divenne vescovo di Riez, Fausto gli succedette nell’abbaziato. Ordinato sacerdote, si sforzò di mantenere il fervore primitivo. Intorno 460, Fausto divenne vescovo di Riez e lo fu fino all’anno 477, quando il re dei Goti, Eurico, lo esiliò a causa del suo antiarianesimo e delle vicende collegate all’occupazione dell’Alvernia e della Provenza da parte dei Visigoti. Nel 462, Fausto partecipò ad un concilio romano in qualità di rappresentante dei vescovi della Gallia. Fausto tornò a Riez probabilmente verso il 485.Per quando riguarda la data della sua morte, essa viene stabilita in base alla lettera di Avito scritta prima del 500, dalla quale risulta che il vescovo di Riez era deceduto già da alcuni anni.

Degli altri primissimi monaci gallici più importanti furono: san Nazario, san Porcario, san Rustico, san Valeriano, sant’Antonio Ciro, san Domiziano.

Per quanto riguarda il monachesimo della Borgogna, bisogna indicare ovviamente san Germano. Nato ad Auxerre nel 380 circa. Nominato generale delle truppe d’Aquitania e delle province lionesi, fu ordinato sacerdote dal vescovo sant’Amatore e nel 418, alla morte dello stesso sant’Amatore, fu acclamato dal popolo vescovo. Abbracciò la povertà radicale e la castità assoluta assieme alla moglie che si trasferì e prese ad occuparsi di opere caritative.

Un altro primissimo monaco gallico fu san Paolino di Nola. Nato nel 354-355 a Burdigala, introdusse il monachesimo martiniano in Italia. Il matrimonio con Terasia non lo distrasse dall’ardore cristiano. Si decise per la vita ascetica, ritirandosi nelle sue proprietà spagnole, assieme alla moglie. Il giorno di Natale 393 (o 394), nella cattedrale di Barcellona, fu acclamato sacerdote, alla condizione, posta da san Paolino, di non essere incaricato in alcuna chiesa precisa. A questo punto, in partenza con Terasia per Nola, volle essere guidato da una regola, e l’unica da lui reperibile fu quella di Marmoutier. Alla morte di san Paolo, vescovo di Nola, nel 409, Paolino, fu designato come successore. Morì nel 431.

Un importante centro monastico fu quello del Giura. Conosciamo i suoi inizi grazie alla Vita Sanctorum Patrum Iurensium Romani, Lupicini, Eugendi. Non sembra che nei monasteri del Giura vigesse una regola scritta durante il V secolo. Ciò può essere anche dedotto dalla stessa Vita SS. Patrum Iurensium. Infatti, gli stessi santi padri fondatori – Romano, Lupicino ed Eugendo – con la loro santità gettarono le fondamenta nel Giura di una forma peculiare di vita ascetico-monastica che non ricalca in modo servile né il primissimo movimento monaco orientale come tale, né i più antichi monasteri in Gallia. I monasteri fondati da questi tre asceti erano diretti da un abate che veniva aiutato, a sua volta, da un co-abate e da diversi padri governatori. Un economo, invece, si occupava dei beni temporali. Inizialmente sia la comunità monastica di Condat sia quella di Laucone era composta da gruppi di eremiti. Soltanto sant’Eugendo impose ai religiosi di vivere da cenobiti in un’unica casa con un unico refettorio e oratorio. Persino tutti i monaci dovevano dormire insieme in un comune dormitorio.

Uno dei più importanti primissimi fondatori del monachesimo gallico fu san Cesario di Arles. Nacque nel 470 nel territorio della città di Cabillon. All’età di diciott’anni, Cesario chiese al suo vescovo Silvestro di poter diventare chierico e così per circa due anni rimase nella gerarchia della Chiesa cittadina. Forse sarebbe diventato diacono e sacerdote della Chiesa di Chalon, se non avesse avuto occasione di conoscere il monachesimo egiziano. Nel 490-491, andò a Marsiglia all’abbazia di San Vittore. L’abate voleva tenere Cesario con sé, ma egli, avendo appreso che nell’isola di Lerino si era formata una comunità monastica, andò a Lerino ove fu accettato nel monastero dell’abate Porcario. Nella comunità monastica di Lerino Cesario ebbe, oltre che alla preparazione teologico-monastico-liturgica, anche una formazione culturale e in-tellettuale. Nel monastero di Lerino Cesario edificò la comunità con la pietà, l’umiltà, la mortificazione, l’ubbidienza ed adoperò una regola di vita monastica molto severa. L’abate Porcario, quindi, lo costrinse, prima del 499, ad andare ad Arles. Qui fu accolto da una coppia di pii laici: Gregoria e Firmino.

Gregoria era parente dello stesso Cesario. La casa di Gregoria e di Firmino era a un tempo un centro culturale, un ricovero, una mensa dei poveri, un ospedale, una sede di catechesi. In quella casa, ad Arles san Cesario frequentò le lezioni del retore africano Giuliano Pomerio. Tale esperienza fu di breve durata: Cesario abbandonò del tutto la cultura classica.

Il vescovo di Arles, Eonio ottenne dall’abate Porcario l’auto-rizzazione a prendere Cesario come membro del suo clero. Eonio ordinò dapprima Cesario diacono e, in seguito, sacerdote. Cesario conservò, però, l’abito monastico. Nel 499 (o nel 500), a san Cesario fu affidata anche la direzione amministrativa di un monastero in suburbana insula ciuitatis dato che l’abate non era adeguato a ricoprire la direzione di esso; Cesario aveva esattamente trent’anni. Per ristabilire in quel monastero la disciplina monastica, Cesario compose una regola incentrata su una rigida ubbidienza monastica e il monastero non tardò a farsi una rinomanza straordinaria.

Dopo più di tre anni di assoluto isolamento, il vescovo Eonio ritenne di aver trovato in san Cesario il suo successore. La prima preoccupazione del nuovo vescovo-monaco-metropolita fu la formazione del clero. Fondò nella sua casa vescovile una scuola in cui i ragazzi studiavano lettere e canto, partecipavano alle liturgie della chiesa cattedrale e si preparavano a ricevere il battesimo.

La città si trovava allora sotto il governo del re visigoto Alarico II che era ariano, e Cesario dovette subire tante situazioni politiche difficili, dalle quali seppe trarre vantaggi per la Chiesa.

Cesario fu sospettato di tradimento ed esiliato a Burdigala. Ciò avvenne ad opera di un tale Liciniano. Infatti, nel 505, questo chierico fece capire al re Alarico II che san Cesario cospirava contro lo stato insieme al re dei Burgundi, Gondebaudo. Così il vescovo di Arles fu esiliato. Cesario, però, ne approfittò per menare vita eremitica. Nel 506, però, san Cesario conquistò di nuovo la fiducia del re.

Stando a Burdigala, Cesario strinse rapporti con i vescovi della Gallia occidentale (Cipriano di Burdigala e Ruricio di Limoges). Anche nel 506, il vescovo di Arles cominciò la costruzione del monastero femminile di San Giovanni, che fu portata a termine nel 512. Voleva che esso fosse edificato vicino a lui per poterlo istruire e proteggere. Ciò nonostante, voleva che sorgesse fuori della città di Arles. Scelse, perciò, gli Alyscamps. Dopo la battaglia, però, di Vouillé, in cui il re Clodoveo sconfisse Alarico II, Franchi e Burgundi misero l’assedio proprio davanti alla città di Arles e demolirono il monastero quasi finito, per costruire delle trincee. Gli Ostrogoti, però, attaccarono gli assedianti, che dovettero cedere e ritirarsi. I costruttori, allora, ripresero la costruzione del monastero, che durò dal 508 al 513, data della consacrazione. La prima badessa di quel monastero fu santa Cesaria, sorella di san Cesario. Numerose vergini e vedove si unirono a lei. San Cesario diede a loro una regola.

Alcuni mesi dopo la consacrazione del monastero, però, santa Cesaria morì e fu sostituita da un’altra Cesaria, chiamata la Giovane. Il numero delle monache salì allora a duecento. Alla morte di quell’ultima badessa, le successe santa Liliola e, poi, santa Rusticola.

Dopo la vittoria degli Ostrogoti, san Cesario cominciò ad alleviare le disgrazie della guerra. Il vescovo pensò che il più necessario dei suoi compiti era il riscatto dei prigionieri. Vendette, quindi, tutti gli oggetti ecclesiastici di valore.

Da quando la regione passò alla dominazione degli Ostrogoti (508-536), san Cesario di nuovo fu accusato di tradimento e convocato a Ravenna dal re Teoderico (512-513), ma riuscì a dimostrare la sua innocenza e ottenne la liberazione della popolazione di Orange, che era stata fatta prigioniera. San Cesario si recò, poi, da Ravenna a Roma ed incontrò papa Simmaco dal quale ottenne, nel 513, la conferma dei diritti metropoliti della Chiesa di Arles contro quella di Vienne. Cesario fu in relazioni di sottomissione non solo con papa Simmaco ma con tutti i sette papi che governavano la Chiesa durante il suo episcopato.

Nel 514, papa Simmaco, confermò a Cesario i privilegi di vicario della Sede Apostolica per la Spagna e per la Gallia. Da quell’anno, quindi, Cesario esercitò un’influenza sempre più crescente su tutta la Gallia, presiedendo, tra l’altro, cinque concili provinciali.

Nel 534, san Cesario ultimò definitivamente la regola delle monache. Nell’ultimo anno della vita (543) la salute di san Cesario diminuiva sempre di più: perdeva di continuo conoscenza in pubblico. Come diceva, aspettava per morire la festa del suo amato sant’Agostino. Quando questo giorno si avvicinò, Cesario volle essere trasportato all’ora dell’ufficio presso le sue monache di San Giovanni. San Cesario disse addio alla badessa Cesaria e rivolse alle monache l’esortazione ad essere fedeli alla regola. Vicino al letto del moribondo si erano riuniti alcuni vescovi della sua provincia ecclesiastica, i sacerdoti, i diaconi, gli amici. Morì proprio il 27 agosto 543.

L’influsso di san Cesario fu considerevole e durò per molte generazioni. Ciò nonostante, la sua Regula non ebbe tanta diffusione fuori della Provenza. Le comunità monastiche formate da san Cesario diedero alla luce personalità ecclesiastiche di alto rango. Uno dei più famosi di esse fu san Cipriano di Tolone. Morto il vescovo di Tolone, nel 524, Cipriano fu eletto a succedergli e guidò quella Chiesa per ventidue anni. San Cesario compose la prima parte della Vita S. Caesarii nella quale inserì tutto ciò che sapeva su san Cesario, sulle sue azioni e le virtù. Avendo, però, paura di aver tralasciato qualche cosa, spedì il manoscritto ad un suo amico – san Firmino, anch’egli allievo di san Cesario.

San Firmino nacque verso il 509 nei dintorni di Narbona. Nel 528, si trasferì presso Ruricio, zio paterno che era vescovo di Uzès. Lo zio lo educò nelle scienza ecclesiastiche e lo ordinò sacerdote. Nel 529 Ruricio morì e san Firmino divenne suo successore. San Firmino apprezzava molto il metropolita san Cipriano e i due divennero amici. Cipriano, perciò, chiese a Firmino di correggere e perfezionare la biografia di san Cesario.

Quando nel 514 il sacerdote Messiano andò da papa Simmaco per presentare una domanda in favore della diocesi di Arles, andò con lui un abate, Egidio. Conosciamo, inoltre, tanti altri chierici famosi formati al monastero di Arles. Uno di essi fu san Teuderio che fondò varie comunità monastiche nella diocesi di Vienne. Anche Floriano, abate presso Milano, si dichiara discepolo di san Cesario d’Arles.

Il monastero di Saint-André di Villeneuve, presso Avignone, ha un’origine poco chiara, ma una cronaca vi fa morire, nel 586, una certa santa Cesaria, monaca, che deve appartenere alla famiglia di san Cesario.

Il più famoso tra i discepoli monastici di san Severo fu san Massenzio: nato ad Arles intorno al 450, si fece monaco nel monastero di Saint-André. La grandezza delle sue virtù causò una così grande ammirazione che Massenzio fuggì per non peccare di orgoglio. Si fece eremita nella Narbonese, ma poi dovette spostarsi e fuggire altrove, perché scoperto dalla gente nel Poitou, ove pensava di trovare una tranquillità eremitica. Dal momento che ancora una volta divenne spettacolo per i curiosi, Massenzio chiese di essere ammesso nel monastero dell’abate Agapito, al quale successe. Dato che aveva accettato ciò solamente a stento, decise di vivere da recluso sul territorio del monastero e i monaci accettarono tale situazione, a condizione però rimanesse abate titolare e dirigesse i monaci dalla reclusione. Massenzio morì nel 515.

Per quanto riguarda i monasteri femminili, le certezze sono ancora più lievi. Possediamo una lettera di san Cesario indirizzata alla badessa Oratoria, da cui possiamo dedurre che ella fosse sua figlia spirituale e che guidasse una comunità monastica di cui il vescovo di Arles era il fondatore. Secondo la tradizione, il monastero il Saint-Pierre du Puy, a Orange, fu stabilito dallo stesso san Cesario sul monte Eutropio.

Gli atti del VI secolo menzionano anche la regola di sant’Aureliano. Questi fu il secondo successore di san Cesario, dove rimase soltanto quattro anni – dal 546-550. Ciò nonostante, egli fondò ad Arles due monasteri: Santa Maria (per le donne), San Pietro (per gli uomini), a cui diede come abate Fiorentino, che aveva all’epoca sessantacinque anni e che sarebbe morto cinque anni dopo (nel 553). Egli scrisse due nuove regole: gli Instituta sanctae regulae e l’Institutio sanctae regulae.

Bazyli Degórski O.S.P.P.E.
Roma – PUST

  1. San Martino di Tours
  2. La diffusione del monachesimo dopo san Martino di Tours
  3. San Giovanni Cassiano
  4. Sant’Onorato e il monachesimo di Lerino
    1. Sant’Ilario di Arles (401-449)
    2. Sant’Eucherio di Lione (380-450)
    3. San Lupo di Troyes († 479)
    4. Vincenzo di Lerino († 450)
    5. Salviano (390-496)
    6. San Massimo di Riez (circa 380-452)
    7. Fausto di Riez (poco prima del 410 – ca. 493)
    8. San Nazario
    9. San Porcario
    10. San Rustico
    11. San Valeriano (o Valerio)
    12. Sant’Antonio Ciro (ca. 470-525)
    13. San Domiziano
  5. San Germano e il monachesimo della Borgogna
  6. San Paolino di Nola
  7. Il monachesimo del Giura
  8. San Cesario di Arles
  9. Continuatori dell’opera monastica di san Cesario d’Arles
  10. Conclusione
  11. Letteratura

L’articolo intende presentare, in modo piuttosto dettagliato, gli inizi del movimento monastico
latino in Gallia. Sarà, perciò, preso in considerazione il periodo che si estende dalla seconda metàdel IV
secolo sino ai primi decenni dei secolo VI.

1. San Martino di Tours

Le primissime notizie sul monachesimo gallico vero e proprio sono collegate a san Martino di Tours e alle vicende del suo tempo. Anzi, con san Martino il monachesimo occidentale come tale conosce una fisionomia nuova. La biografia del santo è nota e dettagliata[1] , per cui qui ne sarà richiamato solo qualche momento saliente.

Nato da famiglia pagana abbiente, fu istradato alla carriera militare senza esiti brillanti, dato che Martino provava attrazione verso i cristiani[2] e, nonostante gravi difficoltà, intraprese il catecumenato[3]. La sua vita cristiana sotto le armi fu molto movimentata: ricevette il battesimo e l’ordine di esorcista[4] ; si recò dai suoi per convertirli alla vera fede[5] ; dopo aver convertito la madre[6] , fu perseguitato ed espulso dalla sua regione a motivo dell’arianesimo ivi imperante[7] ; tornato a Milano, città privata del vescovo sant’Ilario mandato in esilio, eresse un romitaggio nei pressi della città, che purtroppo dovette presto abbandonare a causa della stessa persecuzione ariana.

In seguito, tornò a questo intento monastico, ritirandosi a Ligugé, ove fu raggiunto da numerosi discepoli[8]. In questo periodo, si dedicò anche alla missione di catechesi e predicazione nelle campagne limitrofe quasi non evangelizzate[9] , accompagnata da operazioni di prodigi[10] e da una tale fama di santità che il popolo lo volle vescovo[11]. Tale elezione non lo distolse dalla sua vita ascetica condotta in una cella che, dapprima attigua alla cattedrale, venne in seguito edificata a Marmoutier, proprio allo scopo di tutelare il raccoglimento del santo[12].

È difficile capire come il vescovo di Tours abbia potuto assolvere anche al compito di abate di Marmoutier; ma è certo che fosse animato da instancabile zelo apostolico[13] , per cui, vestito di un mantello di pelo di capra[14] , non perdeva occasione di predicare, convertire[15] ed erigere parrocchie e monasteri[16] , anche in occasione della sua attività episcopale, ad esempio nel Delfinato[17] , a Burdigala e Saragozza[18] , oltre i Pirenei[19].

Il suo stile monastico non è copiato pedissequamente dall’Oriente, ma è originale. Infatti, in san Martino si incontra una convivenza peculiare tra l’abate e il vescovo, fra l’autorità monastica e quella gerarchica che gli impongono sollecitudini e compiti distinti, che egli seppe far conciliare. La sua proposta monastica è singolare anzitutto quanto ai luoghi del ritiro, che non sono impervi deserti pieni di fiere, bensì verdi pianure della Loira. In secondo luogo, per il regime alimentare che è ben diverso dai lunghissimi digiuni dei suoi predecessori orientali; anche per l’assoluta reclusione del monachesimo orientale che è affian-cata dalla dipendenza dal proprio vescovo che san Martino conserva in quanto chierico; infine, è tipico ed originale del monachesimo di san Martino il peregrinare per le strade predicando e convertendo[20].

Come monaco, fu sorpreso dall’arrivo dei discepoli e non osò conferire loro una fondazione clericale; ne fu capo ma solo come tramite del vescovo sant’Ilario. A Marmoutier, invece, quando era ormai vescovo, il monastero divenne quasi un seminario da cui attingere sacerdoti per le diocesi[21] , una scuola alla virtù cristiana, un centro di istruzione teologica dato anche il fatto che un buon numero di discepoli[22] aveva conseguito una formazione umanistica prima di rinunciare al mondo[23].

Si può affermare che il suo monachesimo abbia un’impronta pragmatica; infatti, esso si fonda su una regola non scritta, non solo perché san Martino non era un letterato, ma soprattutto perché desiderava che la regola si potesse adattare alle diverse situazioni concrete; allenta, inoltre, il rigore della disciplina ascetica a favore della disponibilità pastorale, né dà dettagliate prescrizioni comunitarie tanto che si dubita persino che i monaci a Ligugé fossero tenuti all’ufficio canonico in comune; l’iniziativa individuale, insomma, prendeva il sopravento sulla disciplina comune, come il caso di Monte Sant’Antonio e delle Celle. Le sue fondazioni si presentano, dunque, come effetto della sua personale esperienza esistenziale e della sua sensibilità pastorale, che si ispira all’esempio del Signore piuttosto che ai maestri di eremitismo orientali[24]. La giornata dei monaci, molto numerosi a Marmoutier[25] , si svolgeva nelle loro piccole celle di legno, ad imitazione di quella di san Martino[26] , oppure in grotte[27] ; era interamente dedicata agli esercizi spirituali e alla preghiera, che in san Martino era senza interruzione[28] ; si viveva nella più radicale povertà, infatti, i monaci non possedevano nulla, giacché trasferivano ogni loro sostanza al monastero[29] , né potevano eseguire attività manuali che sarebbero inevitabilmente sfociate in forme di commercio[30] ; potevano beneficiare, invece, della carità pubblica. L’amministrazione non ricadeva sull’abate stesso perché san Martino non intese essere l’amministratore e delegò tale impegno ad un intendente[31] ; normalmente si davano ad attività intellettuali, soprattutto alla copiatura di manoscritti, presso un probabile scriptorium-biblioteca; si riunivano per la preghiera e il pasto[32] ; il vino era proscritto, salvo che per i malati[33]. Ai monaci non era imposto un abito uniforme, e molti indossavano un vestito di pelo di cammello[34] , secondo l’uso classico.

Il monachesimo di san Martino costituisce un cenobitismo peculiare, che apprende dalla laura palestinese la libertà lasciata ai suoi membri e vi aggiunge la povertà evangelica; che si aspira all’anacoresi egiziana e anticipa la preoccupazione apostolica della comunità canonicale agostiniana; che mostra nell’obbedienza all’abate una grande disponibilità al servizio della Chiesa.

Quando, all’inizio del V secolo, il monaco Eros di Marmoutier fu acclamato vescovo di Arles, succeduto dall’anacoreta Elladio, e questi da sant’Onorato abate di Lerino, si creò una continuità tra la spiritualità di san Martino e quella della Provenza[35].

2. La diffusione del monachesimo dopo san Martino di Tours

Durante i funerali di san Martino erano presenti quasi duemila monaci[36]. Ancorché questa cifra fosse esagerata, essa potrebbe certamente indicarci la diffusione e lo sviluppo della vita monastica in quella terra delle Gallie.

Ma di quale genere di monaci si tratta? In quel periodo vi erano cenobiti, eremiti, reclusi, ma anche dei semplici conversi, di cui la vita era simile a quella dei monaci stessi. Tra questi conversi, in Gallia, forse il più famoso fu san Sulpicio Severo che riunì nella sua proprietà terriera di Primuliacum una vera famiglia spirituale di discepoli[37].

San Sulpicio Severo, celebre biografo di san Martino, anch’egli di Burdigala, e amico intimo di san Paolino di Nola[38] ; nacque nel 363 da famiglia aristocratica e, dopo essere divenuto il più celebre avvocato di Burdigala, si sposò con una donna di famiglia consolare[39]. Rimasto vedovo in giovane età e devoluti tutti i suoi averi ai poveri, si diede alla vita ascetica[40] , incoraggiato in ciò dalla suocera Bassula, che lo persuase anche a scrivere la famosa vita di san Martino di Tours[41]. Conservò solo la proprietà di Primuliacum, tra Tolosa e Narbona, per trasformarla in monastero[42] i cui monaci furono i suoi inservienti e clienti, assieme ai quali abitava anche Bassula[43].

La vita del monastero non era normata da una regola esplicita, si svolgeva secondo l’ideale di san Martino, ma la sua peculiarità era il rapporto tra i monaci e l’abate, giacché Sulpicio restava in qualche modo il signore e proprietario, senza prendere mai parte ai lavori manuali e do-mestici dei suoi monaci[44].

Certamente, il tutto era pervaso da uno spirito nuovo, ispirato ai consigli evangelici, alla penitenza, alla pietà a cui san Sulpicio Severo per primo uniformava la propria condotta; si può pensare, tuttavia, che le condizioni particolari in cui nacque e visse questo monastero determinarono anche il suo scioglimento alla morte di san Sulpicio[45].

Gli orari godevano di una certa elasticità, si ricevevano ospiti, si organizzava il lavoro quotidiano con estro. San Sulpicio Severo, in particolare, seppure animato dal proposito di essere un padre per la sua comunità, si dedicava ad attività intellettuali, confacenti alla sua attitudine e al suo ceto[46] : redasse la Vita S. Martini[47] , completata da tre Dialogi[48] e da tre lettere[49] , scritte negli anni 397 e 398. Questo lavoro si pose per modelli le vite di sant’Antonio di sant’Atanasio di Alessandria[50] , di san Paolo il Primo Eremita[51] , di san Malco, monaco prigioniero[52] , e di sant’Ilarione[53] , scritte da san Girolamo.

Come si può constatare, questo primissimo monachesimo in Gallia era piuttosto di stampo cittadino. La presenza di questi monaci che vivevano in città era d’aiuto per il clero. Accanto a questo movimento monastico urbano dobbiamo anche ricordare le vergini consacrate a Dio che, sempre più numerose, conducevano una vita cenobitica. Ci furono anche delle recluse[54].

Una figura simile a san Martino di Tour fu san Vittricio di Rouen[55]. Divenuto vescovo verso il 380, visse ed operò da monaco-vescovo. Combatté vigorosamente contro il paganesimo rurale. Mantenne stabili contatti con sant’Ambrogio di Milano e, anzitutto, con san Paolino di Nola. Il suo influsso e la sua fama oltrepassarono i confini della sua diocesi e della stessa provincia. Infatti, i vescovi della Gran Bretagna usufruirono della sua perizia e saggezza per ripristinare l’ordine nelle loro diocesi. San Vittricio svolse anche, con notevoli risultati, un ministero missionario nel nord della Gallia. Fondò, inoltre, alle porte di Rouen almeno un monastero femminile e due maschili, e anche un monastero[56] a Thérouanne (città gallo romana nei pressi di Sanit-Omer)[57]. Durante i suoi viaggi pastorali cercava di insediare anche in diversi luoghi gruppi di monaci. In tal modo, grazie all’azione di san Vittricio, nel nord delle Gallie, nelle terre di Boulogne, Artois e nelle Fiandre occidentali sorgevano numerosi eremi e cenobi[58].

3. San Giovanni Cassiano

Natione Scytha[59] , san Giovanni Cassiano, nacque intorno al 360 in Dobrugia, in cui la gente parlava latino, ma san Giovanni Cassiano conosceva anche perfettamente il greco. Attirato dall’ideale monastico, in compagnia dell’amico Germano andò in pellegrinaggio in Palestina e lì tutti e due, verso il 378, si fecero monaci in un monastero di Betlemme[60]. Nell’arco di due anni, però, furono attratti dalla fama dei monaci egizi. Visitarono diversi monaci del delta del Nilo e si fermarono nel deserto di Scete presso la comunità diretta da Pafnuzio. Da qui ebbero modo di fare diverse visite ad altri gruppi monastici[61].

Verso il 387, ritornarono in Palestina per ottenere il permesso di rimanere stabilmente in Egitto. Il loro soggiorno, però, nella patria del monachesimo non durò lungo, fino al 400 circa. Infatti, a causa delle persecuzioni contro i monaci origenisti, san Giovanni Cassiano venne a Costantinopoli ove san Giovanni Crisostomo lo ordinò diacono, ovviamente prima del 404[62].

Essendo seguace del suo vescovo, san Giovanni Cassiano, incaricato dal clero fedele al Crisostomo, san Giovanni Cassiano portò a Roma, accompagnato dall’amico Germano, un’ambasceria al papa Innocenzo I. Nell’Urbe conobbe personalmente Palladio, Rufino e santa Melania la Giovane[63].

Ordinato prete probabilmente da Alessandro, vescovo di Antiochia[64] , e, in seguito, sbarcato a Marsiglia intorno al 415, chiese al vescovo Procolo ove potesse trovare un luogo solitario per condurvi vita eremitica; invitato dal vescovo a fondare un monastero cenobitico, obbedì e, su un terreno circostante il santuario dedicato a san Vittore, fondò il suo cenobio, detto Paradisus[65] , che si trovava a sud dell’attuale Vieux Pont . In seguito fondò, in una data a noi sconosciuta, il monastero femminile di San Salvatore, situato probabilmente all’interno della vecchia cinta muraria della città[67] , ma non se ne hanno notizie precise[68]. San Giovanni Cassiano morì a San Vittore intorno al 435[69].

La regola che san Giovanni Cassiano diede ai suoi monaci, non ci è stata tramandata. Si presume che l’avesse composta per iscritto, dato il suo interesse e la sua competenza riguardo le regole monastiche[70]. San Giovanni Cassiano fu autore anche del De institutis coenobiorum[71] , nel 420 circa, composto per il monastero di Ménerbes, fondato da san Castore vescovo di Apt in Provenza, su richiesta dello stesso fondatore[72]. Il lavoro fu portato a termine con grande sollecitudine da san Giovanni Cassiano[73]. Ma la sua opera che lo rende famoso fino ad oggi sono naturalmente le Conlationes patrum[74]. San Giovanni Cassiano scrisse, inoltre, il De incarnatione Domini contra Nestorium[75].

4. Sant’Onorato e il monachesimo di Lerino

Quando sant’Onorato fondò, nel 405, la comunità monastica di Lerino, nella Provenza esisteva solo il monastero di Embrun fondato da san Marcellino, intorno al 360, e costituito da una comunità clericale[76].

Della vita e dell’attività pastorale e monastica di sant’Onorato ci informa il suo discepolo e successore alla sede episcopale di Arles, sant’Ilario di Arles, nel Sermo de uita Sancti Honorati Episcopi Arelatensis[77] , sebbene non sia stato possibile ricostruirne esattamente alcuni tratti[78].

Non si conoscono esattamente la data e il luogo di nascita di sant’Onorato; si presume sia avvenuta nel 365 in Lorena o in Borgogna, da una famiglia della nobiltà gallo-romana; ricevette un’educazione elevata, cui volle unire la formazione alla fede, ma, a causa dell’opposizione dei genitori, attese i vent’anni per accedere al battesimo e anche dopo l’evento dovette subire il dissenso paterno[79].

Circa un anno dopo, cioè probabilmente nel 386, sentì la chiamata alla vita eremitica; così, tagliati i lunghi capelli, indossato un saio e, lasciata la famiglia, si avviò in compagnia del solo fratello Venanzio in un asceterio sito nei possedimenti familiari, forse presso Cannes, seguendo la regola comune agli eremiti. Presto i due eremiti ritennero necessario stabilirsi nel deserto per evitare le continue visite da parte della popolazione. Perciò, distribuiti i beni materiali ai poveri, intorno al 394 si trasferirono su isole, probabilmente le isole di Hyères, lasciandosi guidare da san Caprasio. In seguito, si spostarono ancora a Marsiglia e in Grecia, nella quale si costituirono come laura essendo ormai aumentato il numero del gruppo[80].

Si pensa che dopo circa otto anni, cioè nel 403, essendo stati colpiti prima da un’epidemia che uccise, tra gli altri, Venanzio, poi dalla minaccia dell’invasione gotica e, infine, dalla nostalgia, abbiano fatto ritorno in Europa, a Fréjus presso il vescovo Leonzio con il quale sant’Onorato stabilì una forte amicizia[81] e dal quale ricevette l’ordine all’inizio del suo abbaziato. Sant’Onorato, infatti, cercava un’isola deserta sulla quale collocare la comunità, e la trovò nell’isola di Lerino, al largo di Cannes, ritenuta inabitabile e infestata da rettili e animali selvaggi. Ciò nonostante, quando sant’Onorato vi sbarcò desiderò restarvi per sempre, presto raggiunto da discepoli[82].

L’isola divenne luogo di grazia: sant’Onorato amava ogni genere di animale, non si allontanava mai dall’isola se non in caso di assoluta necessità, trascorreva la giornata tra i monaci, soprattutto quelli bisognosi e malati, accoglieva i poveri e gli ospiti; non lasciava mai alcuno senza conforto materiale o spirituale. Caprasio lo aiutava come consigliere e maestro dei novizi[83].

Nel 427, l’abate Onorato fu chiamato sulla sede metropolitana vacante di Arles, riversando nell’ufficio episcopale il suo carisma monastico. Infatti, volle anzitutto stabilire la concordia nel clero, poi formare una Chiesa più povera, dando in elemosine e fondazioni molti beni ecclesiastici[84].

Ormai fiaccato dalla malattia e allettato, sant’Onorato continuava a ricevere pellegrini e impartire loro esortazioni, consigli e ordini. Non volle venir meno ai suoi impegni pastorali ed episcopali neanche il giorno dell’Epifania del 430, quando si alzò dal letto per la celebrazione solenne. Otto giorni dopo morì, ma la sua opera continuò a vivere e a fruttificare spiritualmente[85].

Talvolta vengono citate le „Regole dei santi Padri di Lerino” con quelle di san Basilio di Cesarea in Cappadocia e di san Pacomio; oppure si parla della regola che sant’Onorato aveva dato a Lerino tratta dall’uno e dall’altro Testamento; persino si elogia lo stile letterario di sant’Onorato. Ciò ed altre testimonianze fanno pensare che la comunità monastica di Lerino fosse retta da una regola stilata proprio da sant’Onorato, sebbene non si sia conservata fino ai nostri tempi[86]. Qualche decennio fa, sono state pubblicate le „Regole dei santi Padri”, prima erudita edizione di cinque testi figuranti nel Codex Regularum di Benedetto d’Aniane; secondo dom A. de Vogüé, O.S.B., la „Regola dei quattro Padri: Serapione, Macario, Pafnuzio e l’altro Macario” costituisce la prima normativa monastica di Lerino; Serapione rappresenta Leonzio e insiste sull’unità e ubbidienza, Macario di Scete impersona lo stesso sant’Onorato, che focalizza la funzione dell’abate; Pafnuzio, forse il discepolo di sant’Antonio, forse invece Pafnuzio Bubalo, abate di Scete, impersona Caprasio che ammonisce sul digiuno e il lavoro; l’altro Macario incarna nuovamente sant’Onorato, nonostante la regola sia detta dei „quattro Padri” e non dei tre, per cui bisognerebbe forse leggere un altro personaggio celato dietro il nome di Macario, che si occupa dei rapporti con gli altri monasteri, dell’accoglienza dei chierici e delle punizioni. I discorsi dei Quattro Padri sono orientati in particolare a combattere l’oziosità dei monaci, vizio che maggiormente impediva lo sviluppo della vita monastica in quelle regioni. Infatti, la comunità di Lerino si distinse e si sviluppò proprio grazie all’operosità dei suoi monaci[87].

Tale regola doveva essere in se stessa molto severa, ma applicata dal superiore con sapienza a seconda dei singoli casi. Sant’Onorato considerava ogni suo monaco come un figlio al servizio della cui crescita deve essere intesa la regola[88].

Fondamentalmente la regola di Lerino rifletteva la spiritualità orientale, che sant’Onorato aveva appreso e sperimentato nel Peloponneso e forse anche in altre regioni, e che poteva continuare a conoscere attraverso le fonti sempre più diffuse in Occidente, quali la regola di san Basilio Magno, tradotta da Rufino di Aquileia e pubblicata da san Sulpicio Severo, l’Ordo monasterii, diffuso da Tagaste dopo il 395, la stessa seconda serie delle Conlationes Patrum sui monaci d’Egitto dedicata da san Giovanni Cassiano proprio a sant’Onorato. L’orizzonte ascetico dei monaci di Lerino era, quindi, molto ampio e, giova ricordarlo, il livello culturale generale piuttosto alto, giacché molti monaci erano aristocratici[89].

Il lavoro manuale era presente nella regola, tuttavia senza che risultasse opprimente per alcuno; ugualmente le esigenti veglie notturne monastiche potevano essere dispensate a coloro che si mostravano più deboli. L’alimentazione normalmente scarsa era aumentata per i più cagionevoli; la convivenza fra i monaci dipendeva dal loro livello spirituale. Grande importanza era data all’obbedienza e alla reciproca carità. Per quanto riguarda la disciplina ecclesiastica, Lerino dipendeva dal vescovo di Fréjus, al quale erano anche presentati gli aspiranti sacerdoti, che da lui ricevevano il sacramento del presbiterato, ma in sede; ugualmente avveniva per il sacramento della confermazione, mentre per il battesimo e per il sacramento degli infermi era predisposta una riserva di olio santo[90].

L’abate, oltre ad interpretare e ad applicare la regola, è il garante della gioia e della concordia. Consapevoli di ciò, i monaci gli prestano obbedienza in piena letizia; l’abate deve essere anche modello per i suoi discepoli e monaci e aiutarli ad elevare le loro anime verso la realtà celeste e divina. Se necessario, l’abate deve saper alternare alla pietà e alla dolcezza verso i suoi sudditi la severità. Nel suo governo, egli deve rispettare l’imparzialità ed agire davanti al giudizio di Dio[91].

Alcune mansioni vengono distribuite dal superiore fra i monaci, soprattutto se la comunità è numerosa[92]. Al superiore, tuttavia, è riservata l’accoglienza dei nuovi arrivati: è lui che parla loro per primo, che li introduce alla preghiera comunitaria, che li istruisce durante il pasto. La medesima severità nei contatti con i monaci da parte dei neofiti è raccomandata anche nei casi di monaci che provengano da altri monasteri, che inizialmente staranno a contatto con il solo superiore. Appartiene ugualmente all’abate di accordare il permesso, soprattutto ai monaci novelli ed inesperti, di prendere la parola nei dibattiti sulla Sacra Scrittura; davanti al superiore o al suo secondo i monaci rei di qualche trasgressione non concluderanno la loro preghiera; all’abate spetta, infine, di portare alla comunità la parola di Dio e l’insegnamento della Chiesa[93]. Ma ora vediamo anche più da vicino i discepoli di sant’Onorato.

4.1. Sant’Ilario di Arles (401-449)

Le notizie su sant’Ilario di Arles ci fornisce la Vita Sancti Hilarii Arelatensis[94] , stilata da un autore che si presenta come Reuerentius, che è, con tanta probabilità, uno pseudonimo del suo discepolo: sant’Onorato, vescovo di Marsiglia[95]. Inoltre, lo stesso sant’Ilario ci dà notizie riguardanti la sua vita nel Sermo de uita Sancti Honorati Episcopi Arelatensis[96].

Sant’Ilario nacque intorno all’anno 401[97] , ed era parente e disce-polo di sant’Onorato di Lerino[98]. La Vita anonima di san Lupo[99] , vescovo di Troyes, parla di una sorella di sant’Ilario, di nome Pimeniola, sposa dello stesso san Lupo. Inoltre, la medesima Vita sostiene che anche sant’Ilario fosse natio della Gallia Belgica, come san Lupo[100].

Come di solito si legge nelle Vitae, sant’Ilario anelava alla gloria del mondo. Possedeva tutto ciò che occorreva per raggiungerla: nascita illustre, ricchezza, qualità naturali di bellezza, eleganza, intelli- genza, eloquenza nobile e convincente, brillanti studi di retorica e di filosofia[101].

Non prima del 420[102] , sant’Onorato decise di attirare sant’Ilario[103]. Sembrerebbe, però, che sant’Ilario non volesse ascoltarlo, perché sant’Onorato, nonostante si allontanasse malvolentieri dal suo monastero, ritenne necessario andare a conquistare sant’Ilario sul posto. Lo stesso sant’Ilario ci racconta la sua conversione: sant’Onorato iniziò a parlargli, ma egli non l’ascoltava. Quindi, sant’Onorato iniziò a pregare[104]. „Io però – riferisce sant’Ilario – resistevo e, assecondando l’abitudine tanto pericolosa che avevo del mondo, mi impegnavo con giuramento a perseverare nella mia ostinazione”[105]. Sant’Onorato, perciò, partì senza averlo convinto. Nei due giorni che seguirono, una tempesta spirituale si abbatté su sant’Ilario ed egli improvvisamente si convinse[106]. Diede, quindi, le sue ricchezze ai poveri e si fece monaco a Lerino[107].

In breve tempo, questo giovane monaco conquistò tutte le virtù monastiche. Nel 427, il suo padre spirituale, sant’Onorato, fu eletto vescovo di Arles, e sant’Ilario lo seguì nella città episcopale. Ma l’amore della quiete monastica ebbe il sopravvento, per cui tornò di nuovo a Lerino. Sant’Onorato, oppresso dalla malattia, vedeva in sant’Ilario il migliore dei suoi possibili successori. Dunque, lo richiamò presso di sé. Ma appena sant’Onorato fu sepolto, sant’Ilario fuggì di lì, ma quando aveva ventotto anni, Cassio, comandante delle truppe romane, mandò un gruppo di soldati che lo ricondusse ad Arles[108].

La sua prima azione fu di fondare, presso il suo palazzo vescovile, un monastero in cui inviò i suoi chierici e si scelse una cella. Si dedicava persino al lavoro manuale, ma mentre tesseva, si dedicava alla lettura o dettava una lettera, ecc. Era sempre ansioso di salire in cattedra per annunciare la parola di Dio e la sua eloquenza era tale che riusciva ad interessare l’uditorio per quattro ore senza interruzione! Portava sul corpo un cilicio e possedeva una sola tunica. Si spostava sempre a piedi. Visitava in tal modo tutta la sua provincia ecclesiastica. Destinava agli infelici le rendite del suo lavoro manuale. Per riscattare i prigionieri, fece vendere gli oggetti d’oro e d’argento che ornavano la sua cattedrale, e perfino i vasi sacri. Se doveva imporre una penitenza, piangeva amaramente. Al primo monastero che aveva fondato, sant’Ilario ne aggiunse altri[109]. Sappiamo che in essi la vita era austera, ma ignoriamo se ci fosse una regola precisa e se fosse diversa da quella di Lerino. Si può congetturare che questa avesse servito di modello a sant’Ilario.

Sant’Ilario di Arles svolse un’azione ecclesiale importante[110]. Ebbe una parte di primo piano, nel 429, al concilio delle Gallie; presiedette i concili: di Riez, nel 439[111] ; di Oranges, nel 441[112] ; di Vaison, nel 442[113]. Morì il 5 maggio del 449, all’età di quarantotto anni[114].

4.2. Sant’Eucherio di Lione (380-450)

Anch’egli proveniva dall’alta aristocrazia gallo-romana. Aveva sposato una certa Galla, dalla quale ebbe due figli. Dopo alcuni anni di matrimonio, però, decise di consacrarsi totalmente a Dio nel deserto. Inizialmente voleva partire per l’Egitto, ma aveva ancora la responsabilità dei figli. Fu attirato da Lerino. Lo ricevette sant’Onorato sia come ospite sia come postulante, ma vi rimase poco tempo, perché ciò che lo attraeva davvero era la vita eremitica. Si stabilì, quindi, sulla vicina isola di Lera, oggi Sainte-Marguerite. I due sposi affidarono i loro figli ai monaci di sant’Onorato e si stabilirono ciascuno in un romitorio[115].

Sant’Eucherio intrattenne una corrispondenza assidua con sant’Onorato, san Paolino di Nola e con san Giovanni Cassiano. Quando, intorno al 435, morì il vescovo di Lione – Senatore – fu scelto a succedergli proprio sant’Eucherio[116].

L’episcopato di sant’Eucherio è mal conosciuto. Infatti, non sappiamo nulla di concreto della sua attività pastorale vescovile[117]. Claudiano Mamerto, suo contemporaneo, afferma, però, che sant’Eucherio ha superato tutti i vescovi del suo tempo[]. Era legato da amicizia con Massimo, abate dell’Ile-Barbe, e andava a trascorrere il periodo quaresimale nel suo monastero[119].

Di sant’Eucherio ci restano – oltre ad un certo numero di lettere[120] e delle Sententiae ad monachos[121] , che sono probabilmente apocrife –, due opere esegetiche che appartengono agli anni del suo episcopato (Formulae spiritalis intellegentiae[122] ed Instructionum libri duo ad Salonium[123] ), la „Passione dei martiri di Agauno” (Passio Acaunensium martyrum, Sancti Mauricii et sociorum eius[124] ), e due opuscoli di spiritualità monastica: il De laude eremi[125] e il De contemptu mundi et saecularis philosophiae[126]. Le sue omelie sono per noi perdute. Claudiano Mamerto, però, ci ha trasmesso un frammento del De statu animae (2, 9) di sant’Eucherio[127].

Il De laude eremi è una lettera indirizzata a sant’Ilario di Arles, per complimentarsi del suo ritorno a Lerino dopo il primo soggiorno presso il maestro sant’Onorato, che era divenuto vescovo. Il De laude eremi è forse il primo monumento latino occidentale di spiritualità del deserto[128].

Anche il De contemptu mundi è una lettera[129] , ma questa volta indirizzata ad un secolare che non vuole abbandonare niente e che sant’Eucherio desidera convertire ai consigli evangelici. Il destinatario è un parente di sant’Eucherio, Valeriano, legato alla famiglia imperiale da vincoli di sangue e possessore di un’immensa ricchezza[130].

I due figli di sant’Eucherio e di Galla furono affidati a sant’Ilario, san Vincenzo, Salviano. E così, Salonio divenne vescovo di Ginevra e Verano, invece, vescovo di Vence[131]. Tutti e due sono annoverati ai santi della Chiesa[132].

4.3. San Lupo di Troyes († 479)

Parente di sant’Onorato e cognato di sant’Ilario d’Arles, san Lupo apparteneva allo stesso ceto sociale. Nacque a Toul verso il 395[133]. Aveva studiato diritto e intrapreso la carriera di avvocato. Verso il 418, sposò Pinieniola che proveniva da una delle più ragguardevoli famiglie della Gallia[134]. Sua moglie ed egli stesso scelsero di seguire i consigli evangelici e, quindi, si separarono vicendevolmente per consacrarsi a Cristo. San Lupo scelse la comunità monastica di Lerino, dove si fece notare come uno degli asceti più santi.

L’anno in cui sant’Onorato fu consacrato vescovo di Arles (427), san Lupo dovette recarsi nella regione di Mâcon per concludere una questione d’eredità e distribuire i beni ai poveri. Il vescovo di Troyes, sant’Orso, era appena morto. I delegati del clero andarono a trovare il monaco Lupo e gli comunicarono la sua elezione. Lupo alla fine accettò, ma condusse da vescovo una vita simile a quella dei rigido monaci egiziani: portava soltanto una miserabile tunica sopra un cilicio, mangiava solo tre volte alla settimana, dormiva su una tavola, si alzava ogni notte per cantare mattutino.

Nel 429, san Lupo fu incaricato dai Padri del concilio di Arles[135] , di andare con san Germano d’Auxerre, in Bretagna a combattere l’eresia pelagiana[136].

Quando Attila marciò verso Troyes, Lupo passò alcuni giorni nella preghiera. Poi, andò incontro ad Attila e gli tenne un discorso così convincente che gli Unni non distrussero la città. Dopo essere stato sconfitto, Attila chiese a san Lupo di accompagnarlo fino al Reno. Lupo acconsentì, ma quell’atto fu ingiustamente interpretato come intesa con il nemico e il vescovo fu deposto dalle sue funzioni episcopali. Ne approfittò, però, per costruirsi un eremitaggio. Ciò nonostante, vi rimase soltanto due anni, perché fu richiamato in sede. Morì, nel 479, in età avanzata, dopo cinquantadue anni di episcopato [137].

4.4. Vincenzo di Lerino († 450)

Era gallico e di nobile stirpe e aveva ricoperto vari incarichi nell’amministrazione imperiale. È noto soprattutto grazie alla sua opera teologica: il Commonitorium [138]. Quest’opera vuole rispondere alla seguente questione se esiste un metodo sicuro, universale e immutabile grazie al quale si possa discernere la vera fede cattolica dalle menzogne dell’eresia [139]. E risponde che basta basarsi sulla Sacra Scrittura e sulla tradizione, ossia su ciò che è stato creduto sempre ed ovunque da tutti, dato che ciò che è veramente cattolico, come indica l’etimologia della parola stessa, è universale[140]. Vincenzo applica questo principio alle svariate eresie, dimostrando il loro errore. Inoltre, egli espone la teoria del progresso del dogma che consiste nel fatto che ogni cosa si sviluppa restando se stessa; la caratteristica dell’alterazione è che una cosa si mutua in un’altra[141].

4.5. Salviano (390-496)

Anch’egli era un aristocratico, nato a Colonia o a Treviri. Studiò a Treviri. Sposato giovane ad una pagana, che si fece battezzare sotto il suo influsso e dalla quale ebbe una figlia, venne a conoscenza della conversione di san Paolino di Nola e di Terasia e del loro voto di continenza. Propose, quindi, a sua moglie di seguire la stessa via ed ella acconsentì. Dopo sette anni passati nella provincia di Vienne, nella meditazione della Scrittura e nello studio degli autori ecclesiastici, i due sposi si separarono. Da quel momento, si perdono le tracce della donna e della figlia. Salviano ormai libero si fece monaco a Lerino e presto acquistò una fama così grande che sant’Eucherio di Lione chiese a lui di educargli i suoi figli. Nel 427, però, Salviano uscì dal monastero di Lerino e passò al clero della diocesi di Marsiglia[142].

Ciò nonostante, egli si adoperò ad esaltare le virtù monastiche. Pubblicò un’opera De virginitatis bono ad Marcellum presbyterum[143] , oggi per noi perduta, e quattro libri dell’Ad Ecclesiam[144] , che volevano diffondere l’amore della povertà. Scrisse, inoltre, importanti trattati teologici, dei quali il più importante è il De gubernatione Dei[145]. Ma aveva anche scritto una quantità di altre opere, non pervenuteci[146]. Salviano morì a Marsiglia, nel 496, in qualità di prete della cattedrale, apprezzato e stimato da tutti.

4.6. San Massimo di Riez (circa 380-452)

La sua vita fu scritta un secolo dopo la sua morte da Dinamio Patrizio[147] , amico di san Gregorio Magno. Ma si possono trovare molti fatti che lo concernono anche da un’omelia contenuta nella raccolta cosiddetta dell’Eusebio Gallicano[148] , ma scritta sicuramente da Fausto di Riez[149].

San Massimo nacque a Decomer presso Digne, oggi Château-Redon. La famiglia era di Riez in Provenza, dove possedeva grandi beni fondiari. Fu battezzato subito dopo la nascita. Visse per qualche tempo da asceta in famiglia[150]. Poi, chiese l’abito a sant’Onorato, a Lerino. Fu uno degli anziani che aiutavano l’abate nel governo del monastero. Nel 427, sant’Onorato, eletto vescovo di Arles, indicò san Massimo a succedergli nell’abbaziato[151]. Quando, nel 432, morì san Leonzio, Massimo fu eletto unanimemente alla sede di Fréjus. La sua umiltà gli impedì di recarsi sul continente. I vescovi che dovevano ordinarlo vescovo sbarcarono essi stessi sull’isola. Massimo fuggì nei boschi col monaco Fausto. Per ordine dei vescovi, si batterono tutti gli angoli di Lero. Tre giorni dopo, Massimo non era stato ancora trovato. I vescovi, quindi, decisero di farla finita e ripartirono. Fréjus si scelse un altro pastore[152].

San Massimo si credeva al sicuro. Nel 434, essendo vacante la sede di Riez, il suo nome uscì dalle urne. Questa volta, però, i capitolari giunsero subito in monastero, condussero l’abate nella cattedrale e l’ordinarono vescovo[153].

San Massimo mostrò, vivendo da vescovo, le stesse virtù che aveva praticato nel chiostro. Partecipò al concilio di Riez nel 439[154] , di Orange nel 441[155] , di Vaison nel 442[156] , e al concilio di Arles (negli anni 449-461) [157]. Ricevette il dono dei miracoli. Ignoriamo la data esatta della sua morte.

4.7. Fausto di Riez (poco prima del 410 – ca. 493)

Terzo abate di Lerino (dal 433 al 457). Nacque nella Britannia[158] poco prima del 410[159] , anch’egli fu retore e avvocato, ma si interessò più particolarmente alla filosofia. Percorse le Gallie, alla ricerca del sapere e della vera sapienza. In giovane età, probabilmente verso il 424, si fece monaco a Lerino, quando era abate sant’Onorato[160].

Quando, nel 433, san Massimo, successore di sant’Onorato, fu divenne vescovo di Riez, Fausto gli succedette nell’abbaziato[161]. Ordinato sacerdote, si sforzò di mantenere il fervore primitivo. Nei lunghi anni in cui assolse a questo incarico, fu venerato in monastero come un padre e fuori come un dottore[162].

Intorno 460, quando san Massimo morì, Fausto divenne vescovo di Riez fino all’anno 477, quando il re dei Goti, Eurico, lo esiliò a causa del suo antiarianesimo e delle vicende collegate all’occupazione dell’Alvernia e della Provenza da parte dei Visigoti. Nel 462, Fausto partecipò ad un concilio romano in qualità di rappresentante dei vescovi della Gallia[163]. Fausto tornò a Riez probabilmente verso il 485, anno in cui morì Eurico. Per quando riguarda la data della sua morte, essa viene stabilita in base alla lettera di Avito scritta prima del 500, dalla quale risulta che il vescovo di Riez era deceduto già da alcuni anni[164].

Fausto di Riez compose il De gratia[165] nel quale prende posizione intermedia tra la dottrina pelagiana e quella dei predestinazionisti. Infatti, gli sostiene che la prevaricazione dei progenitori abbia leso la nostra natura, ma non privandola completamente dell’aspirazione al bene. Per tale ragione Fausto viene considerato esponente del semipela-gianesimo[166].

4.8. San Nazario

Quarto abate di Lerino, occupò la carica dal 434 al 485. Fece distruggere sulla costa del continente un tempio di Venere e costruire un monastero di vergini che dedicò al protomartire santo Stefano. Tra le prime monache (forse la stessa badessa?), viene nominata santa Massima, che fino ad oggi è venerata nella diocesi di Fréjus[167].

4.9. San Porcario

Quinto abate di Lerino, governò la comunità solo probabilmente dal 485 al 489. Egli concesse l’abito monastico a san Cesario di Arles e scrisse una specie di manuale della vita monastica, Monita, che è andato perduto[168].

4.10. San Rustico

Nato a Marsiglia, studiò a Roma e poi tornò in Provenza per condurvi la vita monastica. Esitava tra la vita cenobitica e quella eremitica. Nel 411, scrisse, quindi, a san Girolamo per chiedergli il suo parere. Costui gli consigliò la vita cenobitica[169]. Così Rustico si fece monaco a Lerino. Nel 427 fu eletto metropolita di Narbona. Sembra che sia morto il 26 ottobre del 461[170] .

4.11. San Valeriano (o Valerio)

Probabilmente della nobile famiglia dei Valeriani della Gallia. Fu prima monaco di Lerino, poi abate di un monastero, infine vescovo di Cimiez (o Cémèle; Cemenelum), dal 439 al 460 (vicino a Nizza) [171] . Valeriano partecipo al concilio di Riez, nel 439[172] , e a quello di Vaison, nel 442[173] . Di questo vescovo-monaco possediamo una ventina di omelie e una lettera Ad monachos sul „Bene della disciplina” [174].

4.12. Sant’Antonio Ciro (ca. 470-525)

La sua „Vita” (Vita Antonii) fu scritta da sant’Ennodio[175] , vescovo di Pavia. Essa fu commissionata da Leonzio, abate di Lerino[176] . Originario della Pannonia (nato a Civitas Valeria), figlio di Secondino[177] , rimasto orfano all’età di otto anni, figlio spirituale di san Severino[178] , Antonio Ciro andò a vivere con uno zio, san Costanzo[179] , vescovo di Lorch, poi si spostò nella Valtellina presso un asceta di nome Mario[180] . In seguito, si recò in Italia e, assieme ai due discepoli, cominciò la vita solitaria a Como, presso la tomba di san Fedele[181] . Morti i confratelli, visse da solo inoltrandosi in una solitudine. Infine, poiché anche lì la gente andava ad importunarlo, si fece monaco a Lerino, dove passò gli ultimi due anni della sua vita [182].

4.13. San Domiziano

Non conosciamo con precisione le date della sua vita. Gene-ralmente si può soltanto dire che visse nel V secolo. Romano di nascita, san Domiziano divenne a Lerino modello di tutte le virtù monastiche. Per evitare le lodi della gente, si ritirò nella solitudine di Bébrou, nel Delfinato, che si trasformò intorno a lui in un importante monastero, chiamato poi Saint-Rambert[183].

5. San Germano e il monachesimo della Borgogna

San Germano, nato ad Auxerre nel 380 circa, era un intellettuale, di ottima formazione giuridica, sposato ad una donna dell’aristocrazia gallo-romana. Nominato generale delle truppe d’Aquitania e delle province lionesi, fu ordinato sacerdote dal vescovo sant’Amatore quasi di sorpresa, e nel 418, alla morte dello stesso sant’Amatore, fu acclamato dal popolo vescovo[184] .

Abbracciò la povertà radicale, vendendo ogni suo avere, e la castità assoluta assieme alla moglie[185] che si trasferì e prese ad occuparsi di opere caritative. San Germano si cibava di pane d’orzo e acqua, una sola volta al giorno, indossava un cilicio e dormiva su una tavola.

Non si risparmiava nel rendersi presente sia alla diocesi che ai monaci, con grande cura alla loro condotta morale e ascetica[186] .

6. San Paolino di Nola

Nato nel 354-355[187] a Burdigala, signore gallo-romano tra i più abbienti dell’impero, formato ad una delle scuole più prestigiose dell’Occidente[188] , senatore, console e infine governatore della Cam-pania[189] , introdusse il monachesimo martiniano in Italia, essendo amico carissimo di san Martino di Tours[190].

Nonostante i suoi alti incarichi, sentì il richiamo ad un cristianesimo più autentico, anche a seguito dell’esperienza di un miracolo cui assisté durante una celebrazione liturgica a Nola, e si impegnò in opere caritative. Il matrimonio con Terasia, donna modello[191] , non lo distrasse dall’ardore cristiano e dalla frequentazione di uomini di Chiesa, quali Delfino vescovo di Burdigala, Sulpicio Severo e san Martino vescovo di Tours, che lo guarì da una malattia ad un occhio[192] ; incontrò anche sant’Ambrogio, col quale intrattenne una corri-spondenza[193].

Scosso dal triste assassinio del fratello si decise definitivamente per la vita ascetica, ritirandosi nelle sue proprietà spagnole, assieme alla moglie[194].

Ivi consacrava lunghe ore alla preghiera, allo studio della Sacra Scrittura e della teologia, nonché alla composizione di poemi spirituali. I due sposi non avevano rinunciato alla vita matrimoniale e secolare, passo cui approdarono a seguito della morte del loro figlio primogenito Celso, appena neonato[195] , incoraggiati in questo abbandono di ogni bene da Girolamo[196].

Il giorno di Natale 393 (o 394), nella cattedrale di Barcellona, fu acclamato e istituito sacerdote, alla condizione, posta da san Paolino, di non essere incaricato in alcuna chiesa precisa[197]. A questo punto, in partenza con Terasia per Nola, volle essere guidato da una regola, e l’unica da lui reperibile fu quella di Marmoutier, regola che probabilmente non è stata mai scritta da san Martino di Tours, bensì dal suo amico e biografo Sulpicio Severo, secondo i testimoni[198].

L’indumento essenziale era la tunica di pelo di cammello, che Sulpicio Severo inviò apposta al suo corrispondente[199] , la capigliatura era rasa, l’alimentazione consisteva in un solo pasto, come nei monasteri d’Oriente, e il cibo principale il pane; il vino era ammesso a tavola, salvo nei giorni di penitenza[200]. L’abate non volle separare la vita dei monaci da quella dei poveri dell’ospizio che egli aveva fatto erigere a Nola, così eresse le celle monastiche sopra le stanze dei poveri, ciò segnò una rottura con l’uso martiniano delle capanne sparse e rafforzò il carattere cenobitico della comunità, tenuta alla recita del vespro la sera, del mattutino e delle lodi nella seconda metàdella notte. Paolino non ricusava il lavoro manuale. Coltivava, infatti, un orticello, ma era dedito piuttosto al lavoro intellettuale[201] e, sulla scorta dei consigli di san Girolamo[202] , curava anche nei suoi monaci l’istruzione biblica e il retto senso della fede[203].

In contrasto con la povertà del monastero, fece erigere una chiesa grandiosa per la gloria di Dio e una basilica sontuosa in onore di san Felice[204].

Restò sempre in relazione con tutta la Chiesa, nei suoi più illustri e sommi rappresentanti, tra cui sant’Agostino e san Girolamo[205] , Rufino che rappresentava per l’abate di Nola uno dei più perfetti conoscitori del monachesimo orientale[206]. Inoltre, era direttore spirituale di Melania e co-fondatore, con lei, dei monasteri di Gerusalemme[207].

Alla morte di san Paolo, vescovo di Nola, nel 409, Paolino, suo ammirato amico, fu designato come successore[208] ; san Paolino accettò, non senza un certo turbamento della sua vita contemplativa, ma riuscendo ugualmente a mantenere fede all’impegno ascetico intrapreso, sull’esempio di san Martino di Tours. Come vescovo protesse e ottenne la liberazione dei suoi fedeli durante l’invasione di Alarico[209]. San Paolino di Nola morì nel 431[210].

7. Il monachesimo del Giura

Conosciamo gli inizi del monachesimo del Giura specialmente grazie alla Vita Sanctorum Patrum Iurensium Romani, Lupicini, Eugendi[211] , scritta da un anonimo, con tanta probabilità discepolo ed amico di sant’Eugendo.

San Romano e san Lupicino erano fratelli di sangue. Nacquero in un luogo a noi ignoto della Sequania[212] , alla fine del IV secolo. All’età di quasi trentacinque anni, san Romano si fece monaco sotto la direzione di Sabino, abate di un monastero a Lione[213]. Finito questo noviziato monastico, prendendo con sé „Vite dei Padri” e le Institutiones coenobiorum di san Giovanni Cassiano[214] , si stabilì nelle foreste del Giura in una località chiamata Condadisco (più tardi sarà chiamata: Condat) [215] , alla confluenza dei fiumi Tacon e Bienne[216].

Anche suo fratello, Lupicino, decise di vivere da monaco in accanto a suo fratello[217]. Questa piccola comunità godette presto di molta stima nella zona attirando anche tante nuove reclute[218]. In tal modo, poco prima del 445, fu fondato il monastero di Condadisco, che in seguito venne chiamato di Saint-Oyand e poi si trasformo nel centro di Saint-Claude[219]. Qualche anno più tardi[220] , i due fratelli fondarono il monastero di Laucone (Lauconnus) [221] , noto poi come Saint-Lupicin[222]. Nel medesimo tempo, Romano e Lupicino fondarono un monastero femminile[223] che si chiamò Balma (La Baume) e di cui la superiora era la loro sorella[224]. In quel monastero i due fratelli fecero costruire una basilica nella quale venivano sepolte le monache del monastero. Anche san Romano fu sepolto in essa[225] e quel posto venne chiamato Saint-Romain de la Roche.

Intorno alla metàdel V secolo, il monastero di Laucone contava centocinquanta monaci e quello femminile di Balma centocinque religiose[226]. Per tale motivo, nella regione dei Vosgi e in terra germanica furono fondati altri monasteri diretti da Romano e Lupicino[227].

Questi due fratelli di sangue ressero insieme tutti i loro monasteri, ma essi stessi erano alquanti diversi per carattere. San Romano era un monaco contemplativo, umile, mansueto, buono d’indole, indulgente[228]. Perciò, per quanto riguarda la logica umana, egli era troppo indulgente per dirigere un cenobio. Ciò nonostante, il fratello, san Lupicino, ne compensava efficacemente. Infatti, il suo carattere era energico, rigoroso, intransigente[229]. Era, in una parola, un grande asceta e penitente[230]. Quando morì san Romano, nel 463, san Lupicino divenne l’unico abate di tutti i monasteri[231].

Dopo di lui, cominciò ad essere abate il terzo dei padri del Giura, sant’Eugendo[232]. Egli nacque, verso il 450[233] , vicino al villaggio di Isarnodorum[234] e, ancora tenero bambino di sette anni[235] , fu affidato da suo padre, che era presbitero in quel villaggio[236] , alla cura di san Romano e di san Lupicino[237]. Sant’Eugendo, con il passare del tempo, divenne un monaco perfetto. Una volta entrato per farsi monaco, non uscì mai dal monastero[238]. Vestiva poveramente, similmente ai contadini del luogo[239]. Indossava sempre la stessa tunica e si serviva della medesima cocolla, finché non si consumavano del tutto[240]. Per motivi di modestia, non volle essere ordinato presbitero, sostenendo che è meglio che l’abate non sia prete[241].

Alla morte dell’abate Minasio, successore immediato di san Lupicino, sant’Eugendo a stento accettò di prendere il suo posto nella direzione della comunità di Condat[242]. Operatore di molti miracoli[243] , stimato dalla gerarchia ecclesiastica locale[244] , egli resse santamente e prudentemente il monastero[245]. Morì il 1° gennaio del 510[246] , all’età di sessanta anni e sei mesi[247].

Come sostiene G.M. Colombás, „non sembra che nei monasteri del Giura vigesse una regola scritta durante il V secolo” [248]. Ciò può essere anche dedotto o, almeno, suggerito, dalla stessa Vita SS. Patrum Iurensium[249]. Infatti, gli stessi santi padri fondatori – Romano, Lupicino ed Eugendo – con la loro santità e saggezza monastica gettarono le fondamenta nel Giura di una forma peculiare di vita ascetico-monastica che non ricalca in modo servile né il primissimo movimento monaco orientale come tale, né i più antichi monasteri in Gallia[250].

I monasteri fondati da questi tre santi asceti erano diretti da un abate (abbas) o preposito (praepositus), che veniva aiutato, a sua volta, da un co-abate (coabbas) e da diversi padri governatori (patres gubernaculi). Un economo, invece, si occupava dei beni temporali[251]. Inizialmente sia la comunità monastica di Condat sia quella di Laucone era composta da gruppi di eremiti. Soltanto sant’Eugendo impose ai religiosi di vivere da cenobiti in un’unica casa con un unico refettorio e oratorio. Persino tutti i monaci dovevano dormire insieme in un comune dormitorio[252].

8. San Cesario di Arles

Fonti per conoscere la vita di san Cesario sono 1) la Vita Sancti Caesarii[253] , scritta da più persone negli anni successivi alla morte di Cesario: tre vescovi (il più importante di essi fu Cipriano di Tolone, discepolo di san Cesario, dal lui ordinato vescovo di Tolone, prima del 515[254] ), un sacerdote e un diacono; 2) alcuni documenti ufficiali del suo ministero episcopale: i concili gallici di quel periodo da lui presieduti[255] e la corrispondenza di Cesario con i papi.

Dalle suddette fondi apprendiamo che san Cesario nacque nel 470 nel territorio della città di Cabillon (Chalon-sur-Saône) sotto la dominazione burgunda. Proveniva probabilmente da famiglia facoltosa, dato che possedeva un certo numero di schiavi[256]. Ebbe una formazione culturale mediocre[257]. All’età di diciott’anni, Cesario chiese al suo vescovo Silvestro (484-526) di poter diventare chierico e così per circa due anni rimase nella gerarchia della Chiesa cittadina[258]. Ciò nonostante veniva particolarmente attirato dalla vita ascetico-monastica. Forse sarebbe diventato diacono e sacerdote della Chiesa di Chalon, se non avesse avuto occasione di conoscere il monachesimo egiziano[259]. Per tale ragione, nel 490-491, andò a Marsiglia all’abbazia di San Vittore, fondata da san Giovanni Cassiano. L’abate voleva tenere Cesario con sé, ma egli, avendo appreso che al largo di Cannes, nell’isola di Lerino, si era formata una comunità monastica così severa che sembrava inutile intraprendere il rischioso viaggio fino all’Egitto monastico, andò a Lerino ove fu accettato nel monastero dell’abate Porcario e ricevette la veste monastica[260]. Dopo un periodo di iniziazione monastica, a san Cesario fu assegnata la funzione di cellerario[261]. Era un segno di considerazione e di grande fiducia. Quest’incarico consisteva nel sovrintendere alla dispensa monastica: approvvigionare il monastero, ricevere gli ospiti, sorvegliare le cucine[262].

Cesario, se vedeva che alcuni digiunavano troppo, li forzava a mangiare più abbondantemente. Se giudicava che altri erano nutriti, tagliava loro i vitto. Alcuni monaci, però, iniziarono a lamentarsi e le loro proteste arrivarono all’abate che tolse a Cesario quest’ufficio. Ciò nonostante, per mostrare a Cesario tutta la sua benevolenza, Porcario diede a lui una cella separata che non lo separò del tutto dai doveri della vita comunitaria. Cesario, infatti, componeva e insegnava inni liturgi. Nella comunità monastica di Lerino Cesario ebbe, oltre che alla preparazione teologico-monastico-liturgica, anche una formazione culturale e intellettuale, basata anzitutto – per quanto riguarda l’esegesi biblica – su Origene e sant’Agostino; su sant’Ambrogio e lo stesso sant’Agostino per i temi teologici; e – per quanto concerne la dottrina ascetico-monastica – su san Giovanni Cassiano, su Porcario e su Fausto di Riez[263].

Nel monastero di Lerino Cesario edificò la comunità con la pietà, l’umiltà, la mortificazione, l’ubbidienza ed adoperò una regola di vita monastica molto severa: si sottopose agli eccessi dei digiuni e il suo organismo si debilitò gravemente. L’abate Porcario, quindi, lo costrinse, prima del 499, ad andare ad Arles. Qui fu accolto da una coppia di pii laici – Gregoria e Firmino[264].

Gregoria era parente dello stesso Cesario. La casa di Gregoria e di Firmino era a un tempo un centro culturale, un ricovero, una mensa dei poveri, un ospedale, una sede di catechesi. In quella casa, ad Arles san Cesario frequentò le lezioni del retore africano Giuliano Pomerio[265] , che era allora il più celebre retore di Provenza, e si avvicinò in tal modo agli pensatori profani e alla filosofia. Ciò nonostante tale esperienza fu di breve durata. Infatti, durante un sogno gli era apparso un serpente che lo divorava[266] , e così Cesario si convinse del pericolo causato dagli studi profani e abbandonò del tutto la cultura classica[267].

Il vescovo di Arles, Eonio (o „Eone”; parente di san Cesario) ottenne dall’abate Porcario l’autorizzazione a prendere Cesario come membro del suo clero. Eonio ordinò dapprima Cesario diacono e, in seguito, sacerdote. Cesario conservò, però, l’abito monastico e praticò le virtù monastiche[268].

Il vescovo Eonio affidò a Cesario l’amministrazione degli affari materiali della sua Chiesa: fu preposto alla gestione delle rendite ecclesiastiche, alla sacrestia della chiesa cattedrale, all’organizzazione degli aiuti ai poveri[269].

Nel 499 (o nel 500[270] ), a san Cesario fu affidata anche la direzione amministrativa di un monastero in suburbana insula ciuitatis[271] (probabilmente un quartiere sulla riva destra del fiume Rhône, l’odierna Trinquetaille[272] ), dato che l’abate non era adeguato a ricoprire la direzione di esso; Cesario aveva esattamente trent’anni. Per ristabilire in quel monastero la disciplina monastica, Cesario compose una regola incentrata su una rigida ubbidienza monastica e il monastero non tardò a farsi una rinomanza straordinaria[273].

Dopo più di tre anni di assoluto isolamento, il vescovo Eonio ritenne di aver trovato in san Cesario il suo successore[274]. Era, infatti, anziano e presentiva vicina la fine della sua vita. Il Santo, però, fuggì per essere poi ritrovato nella necropoli di Alyscamps, questa imponente area edificata sotto i bastioni del grande san Trofimo[275] , e nel 502 (o 503[276] ) san Cesario divenne vescovo di Arles[277].

La prima preoccupazione del nuovo vescovo-monaco-metropolita fu la formazione spirituale del clero. Volle che i chierici della città fossero assidui all’ufficio e tenne a che questi uffici fossero arricchiti di inni che egli stesso componeva o si faceva pervenire dalla comunità monastica di Lerino. Dato che la popolazione della sua diocesi proveniva da tutto il bacino del Mediterraneo, san Cesario fece cantare i salmi e, le antifone e i cantici sia in latino che in greco. Possiamo anche supporre che egli abbia introdotto nella liturgia la sequenza[278].

Il vescovo san Cesario fondò nella sua casa vescovile una scuola in cui i ragazzi studiavano lettere e canto, partecipavano alle liturgie della chiesa cattedrale e si preparavano a ricevere il battesimo. Egli stesso visitava le aule scolastiche, e interveniva nelle prove di canto[279].

La città si trovava allora sotto il governo del re visigoto Alarico II che era ariano, e il vescovo Cesario dovette subire tante situazioni politiche difficili, dalle quali, ciò nonostante, seppe trarre vantaggi per la Chiesa cattolica[280].

Nonostante la vita esemplare e santa, san Cesario fu sospettato di tradimento ed esiliato a Burdigala, in residenza obbligatoria[281]. Ciò avvenne ad opera di un tale Liciniano che addirittura faceva parte del clero di Arles. Infatti, nel 505, questo disgraziato chierico fece capire al re Alarico II che san Cesario cospirava contro lo stato insieme al re dei Burgundi, Gondebaudo. Così il vescovo di Arles fu arrestato ed esiliato. Cesario, però, ne approfittò per menare vita eremitica. Nel 506, però, san Cesario conquistò di nuovo la fiducia del re[282].

Stando a Burdigala, Cesario strinse rapporti con i vescovi della Gallia occidentale (Cipriano di Burdigala e Ruricio di Limoges). Anche nel 506, il vescovo di Arles cominciò la costruzione del monastero femminile di San Giovanni, che fu portata a termine nel 512[283]. Voleva che esso fosse edificato vicino a lui per poterlo istruire e proteggere. Ciò nonostante, voleva che sorgesse fuori della città di Arles, e ciò ovviamente per la tranquillità delle monache. Scelse, perciò, gli Alyscamps. L’opera gli stava tanto a cuore che vi partecipò egli stesso. Dopo la battaglia, però, di Vouillé, in cui il re Clodoveo sconfisse Alarico II, Franchi e Burgundi misero l’assedio proprio davanti alla città di Arles e demolirono il monastero quasi finito, per costruire delle trincee. Gli Ostrogoti, però, attaccarono gli assedianti, che dovettero cedere e ritirarsi. I costruttori, allora, ripresero la costruzione del monastero, che durò dal 508 al 513, data della consacrazione. La prima badessa di quel monastero fu santa Cesaria, sorella di san Cesario. Numerose vergini e vedove si unirono a lei. San Cesario diede a loro una regola, e papa Ormisda approvò la fondazione del monastero con una bolla del 514[284].

Alcuni mesi dopo la consacrazione del monastero, però, santa Cesaria morì e fu sostituita da un’altra Cesaria, chiamata la Giovane. Il numero delle monache salì allora a duecento. Alla morte di quell’ultima badessa, le successe santa Liliola e, poi, santa Rusticola. Ella era figlia di una nobile donna di Vaison, Clemenza, che aveva perso il marito e il primogenito dei suoi due figli. In precedenza, Rusticola era così bella, anche se aveva soltanto, all’epoca, cinque anni, che un cavaliere burgundo – Cheraone – decise di rapirla, volendo sposarla. Avvertita di ciò dalla madre, Liliola scrisse al vescovo Siagrio d’Autun e al re Gontrano per ricevere giustizia. Così, il guerriero rapitore dovette restituire Rusticola, che fu data a Liliola. Alla fanciulla piacque quella vita monastica austera e penitenziale: andava con le suore agli uffici e aveva imparato a memoria tutto il salterio e la gran parte della Sacra Scrittura. Rusticola era, inoltre, una monaca esemplare e virtuosa. Quando Rusticola chiese l’abito monastico, la badessa acconsentì. La madre di lei, però, ne fu adirata e cercò di conquistare la figlia con la bella villa e le ricchezze di Vaison. La causa fu allora affidata al vescovo Sapaudo. Secondo la legge, però, una vergine che aveva passato parecchi anni in un monastero non poteva essere mandata via contro la sua volontà. La madre Clemenza si ricordò, allora, di un sogno: san Cesario la vide nella sua casa con due colombe sulle ginocchia: ne aveva reclamata una; Clemenza gliel’aveva data ed egli l’aveva portata via. Clemenza dovette, perciò, dare a Dio la sua amatissima colomba. Dopo la morte di Liliola, Rusticola (all’età di diciott’anni) fu eletta badessa[285].

Dopo la vittoria degli Ostrogoti, san Cesario cominciò ad alleviare le disgrazie della guerra. Il vescovo pensò che il più necessario dei suoi compiti era il riscatto dei prigionieri. Vendette, quindi, tutti gli oggetti ecclesiastici di valore[286].

Da quando la regione passò alla dominazione degli Ostrogoti (508-536), san Cesario di nuovo fu accusato di tradimento e convocato a Ravenna dal re Teoderico (512-513), ma riuscì a dimostrare la sua innocenza e ottenne la liberazione della popolazione di Orange, che era stata fatta prigioniera[287]. San Cesario si recò, poi, da Ravenna a Roma ed incontrò papa Simmaco dal quale ottenne, nel 513, la conferma dei diritti metropoliti della Chiesa di Arles contro quella di Vienne (allora diretta dal vescovo Avito). In tal modo, san Cesario in veste di metropolita contava sotto la sua giurisdizione ventisei suffraganei[288]. A dir il vero, san Cesario fu in relazioni di sottomissione, ma anche di autorità morale, non solo con papa Simmaco ma con tutti i sette papi che governavano la Chiesa durante il suo episcopato: Simmaco nomina Cesario suo vicario per le Gallie e la Spagna (l’11 VI 514) [289] ; Ormisda, dopo la sua elezione, invia a Cesario una lettera di amicizia e di tutela e ingiunge a sant’Avito, vescovo e metropolita di Vienne, di riunire un concilio; san Felice IV e san Bonifacio II si congratulano con san Cesario per la sua sana dottrina cattolica circa la grazia; papa Vigilio lo designa d’imporre al re franco Teodeberto – colpevole d’incesto – una penitenza[290].

San Cesario, inoltre, era in corrispondenza con tanti altri vescovi dei quali non era il metropolita. Molti di questi gerarchi vengono a san Cesario per ricevere dei consigli. Un giorno è san Leobino, abate dell’Angiò, che viene a dire a san Cesario che volle farsi monaco a Lerino, ma il vescovo di Arles lo rispedisce a dirigere la propria abbazia[291].

Nel 514, papa Simmaco, come abbiamo già detto, confermò a Cesario i privilegi di vicario della Sede Apostolica per la Spagna e per la Gallia. Da quell’anno, quindi, Cesario esercitò un influsso sempre più maggiore su tutta la Gallia, presiedendo, tra l’altro, cinque concili provinciali. Il primo di essi fu riunito ad Arles, il 6 giugno del 524, per studiare le applicazioni dei canoni anteriori sulla disciplina ecclesiastica e quelle della pastorale nelle parrocchie rurali[292]. Il secondo fu convocato a Carpentras, il 6 novembre del 527, per giudicare prevalentemente Agrezio, vescovo di Antibes, che aveva trasgredito le decisioni conciliari affrettando l’ordinazione di un sacerdote: poiché Agrezio non venne, fu sospeso dalle funzioni liturgiche per un anno[293]. Il 3 luglio del 529, il concilio d’Orange si pronunciò sulla grazia contro un certo numero di chierici che professavano dottrine più o meno pelagiane[294]. Il 5 novembre del 529, san Cesario fece riunire un concilio a Vaison, contro la prassi della Chiesa di Roma, che i sacerdoti delle parrocchie potevano predicare e che, in caso di loro impedimento, i diaconi potevano leggere le omelie dei Padri[295]. Accrebbe così l’importanza dei preti e si preoccupò della loro formazione. Stabilì per i sacerdoti non ammogliati una specie di vita religiosa condivisa con il vescovo, con pasti comunitari accompagnati dalla preghiera e colloqui sui testi letti. Decise che ogni ordinando, prima dell’ordinazione, doveva leggere quattro volte l’Antico e il Nuovo Testamento[296]. Ingiunse ai parroci di formare scuole parrocchiali, in cui fosse data una seria istruzione dottrinale, scritturistica e liturgica. Gli alunni usciti da queste scuole potevano sia vivere liberamente da laici, sia sposarsi e divenire chierici minori, sia abbracciare la continenza e accedere al diaconato e al presbiterato. Per quanto riguarda la liturgia, fu decretata l’aggiunta del Gloria Patri e del Sicut erat: „In accordo con Roma, con l’Oriente, con tutta l’Africa e l’Italia, si reciterà alla fine di ogni salmo, cantico e versetto, il Gloria Patri e il Sicut erat” [297]. L’ultimo concilio, infine, quello di Marsiglia, tenuto il 26 maggio del 533, regolò soltanto il caso di un vescovo accusato di scandalo pubblico[298].

Nel 534, san Cesario ultimò definitivamente la regola delle monache, e nel 536 vide passare Arles sotto il governo dei cattolici, con il franco Childeberto I. Nell’ultimo anno della vita (543) la salute di san Cesario diminuiva sempre di più: perdeva di continuo conoscenza in pubblico. Come diceva, aspettava per morire la festa del suo amato sant’Agostino. Quando questo giorno si avvicinò, Cesario volle essere trasportato all’ora dell’ufficio presso le sue monache di San Giovanni. Esse furono molto commosse tanto che la salmodia era interrotta continuamente dai singhiozzi. San Cesario congedò per sempre la badessa Cesaria e rivolse alle monache l’esortazione ad essere fedeli alla regola, quindi impartì a tutte la benedizione. Vicino al letto del moribondo si erano riuniti alcuni vescovi della sua provincia ecclesiastica, i sacerdoti, i diaconi, gli amici. San Cesario morì proprio il 27 agosto 543, come aveva desiderato, la vigilia di sant’Agostino, nel settantaquattresimo anno di età e quarantunesimo di episcopato, e fu sepolto nella basilica di Santa Maria[299].

Vediamo ora l’operato di san Cesario. Anzitutto, era un vero e proprio pastore d’anime, fondatore di istituzioni di carità e di chiese, legislatore liturgico e monastico della sua regione ecclesiastica: compose due regole, una per monaci e una per monache, e fondò diversi monasteri. Inoltre, trattò problemi di carattere di organizzazione e amministrativo della Chiesa, definendo i compiti delle diverse categorie del Popolo di Dio. Intervenne anche su questioni teologiche del suo tempo ed ebbe un’importanza di primo piano nella stabilizzazione dei rapporti ufficiali della Chiesa con i nuovi regni barbarici[300].

Queste attività non gli fecero abbandonare gli infelici e i poveri. Infatti, aveva affidato a un diacono l’organizzazione delle opere di carità. Egli stesso aveva diretto la costruzione di un ospedale attiguo alla sua cattedrale, con una novità – con letti! e, inoltre, con infermieri, medici e cappellani. Inviava anche questi ultimi a visitare le case per trovare coloro che celavano le loro malattie e per trasferirli nell’ospedale[301].

L’attività di predicatore, rivolta non soltanto ai fedeli, ma anche ai monaci e alle monache, si espresse soprattutto nei sermones[302]. Infatti, san Cesario predicava molto, dato che i libri di quell’epoca erano rari e l’ignoranza religiosa profonda ed esasperante. Le sue prediche, però, erano brevi. Ciò nonostante, succedeva, a volte, che alcuni fedeli, annoiati, si alzavano per uscire. Allora, san Cesario li faceva ritornare. Rimproverava apertamente i ritardatari e coloro che non si ingino-cchiavano o restavano in piedi nei momenti solenni in cui bisognava stare in ginocchio, fustigava coloro che parlottavano durante la sua predica, verificava le loro conoscenze teologiche, visitava senza preavviso le parrocchie[303].

Il metodo di lavoro di san Cesario, che si serviva degli estratti di vari autori, prevalentemente di sant’Ambrogio e di sant’Agostino, aveva fatto sì che già alla fine del Medioevo la sua produzione letteraria fosse diventata anonima. Le sue opere furono recuperate soltanto alla fine dell’ottocento dal benedettino G. Morin[304].

La Regula monachorum, rivolta ai monaci del monastero di Trinquetaille, di cui era stato abate, e contenente solo sei pagine (ventisei precetti), sarebbe stata da lui dettata a suo nipote, il prete della cattedrale, Teridio[305] (o Tetradio[306] ). È un’opera del Cesario riformatore, eletto in un monastero già esistente e considerato dal vescovo di Arles, Eonio, in decadenza. Questa regola fu composta nel 500 ancora da Cesario abate, e pubblicata probabilmente nel 503 da Cesario vescovo di Arles per tutti i monasteri della sua giurisdizione[307]. La regola, inoltre, non è un semplice regolamento che potrebbe essere mutato da un altro superiore, ma costituisce una valida e duratura legge spirituale[308].

Il primo articolo della Regula monachorum di san Cesario stabilisce per la prima volta in assoluto il voto di stabilità e subito dopo quello di povertà. Il monaco che entra nel monastero deve non solo aver rinunciato a tutti i beni materiali, ma anche deve esibire un atto legale che certifica che non possiede alcuna proprietà. Prima, infatti, i figli dei ricchi portavano con sé biancheria, mobili, piccoli oggetti (tutto per uso personale), ecc. In più, il candidato non poteva lasciare i suoi beni temporali a chiunque, ma soltanto ai genitori (solo se erano poveri) o doveva destinarli ad opere buone o al monastero in cui sa faceva monaco[309].

Un’altra novità: san Cesario fece sostituire le celle con il dormitorio. Infatti, dal momento che tutti erano uguali e non avevano mobili od oggetti personali, le celle personali caddero in disuso. Inoltre, la formazione dei monaci chierici avveniva soltanto nel monastero di Arles, vicino alla cattedrale vescovile[310].

L’autorità dell’abate fu rafforzata: vigilava a far rispettare la disciplina e l’armonia fra i fratelli; se qualcuno avrà offeso la carità, doveva chiedere pubblicamente perdono. L’abate custodiva anche la spiritualità monastica con conferenze ascetiche. A lui spettava fornire a ognuno ciò che gli spettava[311].

Secondo la regola, i monaci non potevano comunicare con il mondo, neanche per lettera, a meno di un permesso dell’abate. La clausura era strettamente osservata e le donne non potevano assolutamente entrarci. Il silenzio era stabilmente rispettato in tutti i luoghi comuni. I monaci non mangiavano mai la carne (eccetto i malati). Durante i pasti si leggeva sempre. Da settembre a Natale e poi dalla settuagesima a Pasqua, si osservava il digiuno quotidiano, eccetto la domenica. Da Pasqua sino a settembre, invece, si digiunava soltanto due giorni la settimana: il mercoledì e il venerdì [312].

Per quanto concerne l’ufficio divino, la regola parla soltanto di quello notturno. Esso è duplice: le „vigilie” (attuale ufficio delle letture) e i „mattutini” (attuali lodi). Durante la settimana, dal mesi di ottobre a Pasqua, le vigilie comprendevano due notturni e tre lezioni, tra le quali era inserito un tempo di orazione; la regola non precisava la recita dell’ufficio tra Pasqua e ottobre. Il sabato, la domenica e i giorni festivi, le vigilie avevano dodici salmi con tre antifone e si leggevano tre letture scritturistiche: la prima di un profeta, la seconda tratta da san Paolo, e la terza dal Vangelo. I monaci restavano seduti per le due prime letture e stavano in piedi per il Vangelo. Tutte le letture erano lunghe: sei fogli ciascuna. Il lettore faceva una pausa a metàdella lettura per lasciare ai monaci tempo per una meditazione. Le lodi domenicali venivano recitate subito dopo le vigilie ed erano composte dai salmi 144 e 135, dal Cantico di Mosè, dal salmo 145, dal Cantico dei tre giovani nella fornace e dai salmi 148, 149, 150. L’ufficiatura terminava con il Te Deum, il Gloria in excelsis Deo e con un capitellum[313].

Prima dell’ora terza, tutti i monaci si dedicavano alla lettura della Bibbia (prevalentemente). Dopo l’ora terza, invece, andavano a lavorare, secondo l’ordine dell’abate. Ogni lavoro doveva essere compiuto volentieri, con spirito di gioiosa obbedienza e reciproco aiuto. Quando i monaci sentivano il segnale dell’ufficio divino, lasciavano tutto e andavano a cantare le lodi a Dio. Quando, però, un monaco tardava, riceveva un colpo di ferula sulla mano[314].

Gli Statuta sanctarum virginum, cominciati verso il 512 (alla data della fondazione del monastero di San Giovanni), sono molto più ampi e dettagliati e, successivamente, furono più volte ritoccati per consenso dello stesso san Cesario e così, nel 534, furono del tutto stilati. Questa regola è stata l’opera di un fondatore atta a prevenire ogni disordine e ad assicurare alla vita comunitaria solide e definitive fondamenta. La redazione di una regola concepita per delle monache fu, all’epoca, un fatto innovativo e suscitò interesse ed ammirazione (persino da parte di papa Ormisda, come testimonia la sua lettera indirizzata a san Cesario). Tra le fonti di questa regola femminile troviamo le opere monastiche di san Giovanni Cassiano, la tradizione ascetica dell’isola di Lerino, la regola maschile detta di sant’Agostino. Ciò nonostante, bisogna anche sottolineare l’impronta originale dello stesso vescovo di Arles, sia per quanto riguarda le norme generali di comportamento (la stretta clausura, al vita comunitaria, l’importanza della lettura e della carità), sia nei diversi dettagli (come, ad esempio, l’altezza dell’acconciatura delle monache) [315].

Una simile regola per le monache era davvero necessaria. Infatti, i primissimi conventi femminili della Gallia del sud somigliavano più a pensioni per zitelle che non a luoghi di rinuncia e di contemplazione. Ogni monaca, infatti, portava nella sua cella il suo mobilio e le sue abitudini, i vestiti e l’arredamento del letto, persino la domestica e le ricette di cucina. Le monache non uscivano dalla clausura ma, in compenso, ricevevano frequentemente i visitatori che portavano ad esse regali. Per questa ragione, dato che mancava proprio una vera regola monastica, san Cesario ne scrisse una, prima ancora di riunire le sue monache, e affidò la sorella alla comunità di Marsiglia, affinché imparasse la vita veramente claustrale[316].

Ora, vediamo più da vicino gli Statuta sanctarum virginum. Questa regola femminile comprende due parti: la prima parte è la regola primitiva, data alle religiose all’inizio della fondazione del monastero di San Giovanni (ossia, verso il 512[317] ). Questa prima parte contiene quarantatré articoli. La seconda parte – chiamata „Ricapitolazione” – è stata aggiunta per risolvere diverse difficoltà pratiche. Questa seconda parte contiene 19 articoli[318].

Degli scritti monastici di san Cesario possediamo anche i sei Sermones ad monachos e le Ad sanctimoniales epistulae (la Coegisti e la Vereor) indirizzate alla sorella Cesaria e alla sua comunità monastica, ossia al monastero di Arles dedicato a San Giovanni[319].

Esiste anche l’Epistula hortatoria ad virginem Deo dicatam. G. Morin, però, non la considera scritta da san Cesario; essa dev’essere, forse, attribuita al nipote Teridio[320].

9. Continuatori dell’opera monastica di san Cesario d’Arles

L’influsso di san Cesario sul monachesimo fu considerevole e durò per molte generazioni. Ciò nonostante, la sua Regula non ebbe tanta diffusione fuori della Provenza. Infatti, per quanto riguarda la Gallia meridionale, i cenobi che vivevano secondo di essa perirono già un secolo dopo e ciò a causa delle incursioni dei Saraceni. Dopo la liberazione, poi, era già conosciuta ed apprezzata un’altra regola, quella di san Benedetto di Norcia. Dobbiamo anche dire che lo stesso san Benedetto aveva preso un certo numero di elementi dalla regola di san Cesario[321].

Le comunità monastiche formate da san Cesario diedero alla luce personalità ecclesiastiche di alto rango. Uno dei più famosi di esse fu san Cipriano di Tolone. Egli si formò nella comunità monastica di Arles ed era molto apprezzato a causa della sua scienza. Infatti, morto, probabilmente nel 524[322] , il vescovo di Tolone, al suo posto fu eletto Cipriano che guidò quella Chiesa per ben ventidue anni. San Cipriano di Tolone compose – sotto la richiesta di Cesario il Giovane[323] – la prima parte della Vita S. Caesarii episcopi Arelatensis, nella quale inserì tutto ciò che sapeva sul vescovo di Arles. Avendo, però, paura di aver tralasciato qualche cosa, spedì il manoscritto ad un suo amico, a san Firmino di Uzès, anch’egli allievo di san Cesario[324].

San Firmino, figlio di un prefetto delle Gallie – Tonanzio Ferreolo – nacque verso il 509 nei dintorni di Narbona, ove ricevette una solida formazione culturale. Nel 528, si trasferì presso Ruricio, zio paterno che era vescovo di Uzès, che lo educò nelle scienza ecclesiastiche per sette anni e poi lo ordinò sacerdote. Nel 529, Ruricio morì e san Firmino, all’età di ventott’anni, divenne suo successore. In quel periodo, la diocesi di Uzès fu distaccata dalla metropoli di Bourges e unita a quella di Arles. San Firmino apprezzava molto il metropolita san Cipriano e i due divennero amici. San Cipriano, perciò, chiese a Firmino di correggere e perfezionare la biografia di san Cesario[325].

Quando san Cipriano di Tolone ottenne il suo manoscritto emendato da san Firmino, non volle pubblicarlo e lo spedì ad un terzo discepolo di san Cesario – Vivenzio, un vescovo di cui non conosciamo la sede. Vivenzio, però, decedette prima di aver soddisfatto del tutto alle esigenze del vescovo di Tolone, e così san Cipriano si rivolse a due ecclesiastici di san Cesario – al sacerdote Messiano, che era stato segretario del vescovo, e al diacono Stefano. Il sacerdote Messiano aggiunse, quindi, i suoi ricordi circa san Cesario, ma essi non erano molto significativi o importanti. Il diacono Stefano, invece, redasse la maggior parte del libro secondo della Vita[326].

Quando, nel 514, il sacerdote Messiano andò da papa Simmaco per presentare una domanda in favore della diocesi di Arles, si recò con lui un abate che si chiamava Egidio. Ora, l’unico abate che, in quel periodo, portava questo nome in quella regione fu quello che era nato in Grecia e che poi venne in Provenza. L’ordine cronologico degli eventi a questo proposito rimane, però, molto discusso: a) Egidio avrebbe, al suo arrivo, costruito un romitaggio presso il Piccolo Rodano, a quattro leghe da Arles; di seguito, diventato abate della comunità, sarebbe stato chiamato da san Cesario al servizio pastorale; b) Egidio si sarebbe, invece, subito unito a san Cesario e sarebbe diventato abate di uno dei monasteri di Arles; poi, sarebbe fuggito in una solitudine e qui sarebbe molto circondato da suoi. Il secondo schema, a dir il vero, quadra meglio con i racconti degli autori antichi, che collocano all’ultimo la solitudine che diverrà Saint-Gilles e fanno soggiornare in precedenza Egidio presso Arles[327].

Conosciamo tanti altri ecclesiastici famosi formati nel monastero ad Arles. Uno di essi fu san Teuderio che fondò varie comunità monastiche sul territorio della diocesi di Vienne. Qualche studioso, però, fa di lui discepolo di sant’Eufronio d’Autun. Niente vieta, ciò nonostante, che egli sia passato, prima di istituire la sua comunità, da Arles ad Autun[328].

In una delle lettere, Floriano, abate presso Milano, si dichiara discepolo di san Cesario d’Arles[329].

Paragonando la regola di san Cesario con la riforma operata da sant’Eugendo a Condat, possiamo pensare che anche il riformatore del Giura utilizzasse per i suoi monaci la regola del vescovo di Arles[330].

Il monastero di Saint-André di Villeneuve, vicino ad Avignone, ha un’origine poco chiara, ma una cronaca vi fa morire, nel 586, una certa santa Cesaria, monaca, che deve appartenere alla famiglia di san Cesario[331].

Anche Giuliano Pomerio sembra essere collegato con san Cesario di Arles: africano, nato in Mauritania, venuto nella Gallia Narbonese, studiò retorica ad Arles e divenne così – come sappiamo – professore di san Cesario nel periodo in cui egli si trasferì da Lerino ad Arles[332]. Giuliano Pomerio, poi, con tanta probabilità si fece monaco in un monastero di cui divenne abate. Infatti, tale costatazione si basa soltanto su due lettere di Ruricio di Limoges, indirizzate proprio abbati Pomerio[333]. Ora, possiamo chiedere se ciò fosse avvenuto sotto l’influsso di san Cesario. Questo monastero sarebbe quello dell’isola collocata a sud di Arles e riformato dallo stesso Cesario. Pomerio gli sarebbe, quindi, succeduto nella guida dell’abbazia quando San Cesario divenne vescovo di Arles[334].

Molti monasteri maschili, che furono fondati nelle diocesi vicine ad Arles, hanno un’origine oscura, e che si può collocare prima della morte di san Cesario. Per esempio, il monastero di Bevons (oggi Bodon), nella territorio della diocesi di Sisteron, il cui primo abate fu san Mario, eletto nel 509, ossia quando il vescovo di Arles aveva riformato il monastero maschile della sua città e stava costruendo il monastero femminile. San Donato († 535), un discepolo di san Mario, edificò a poca distanza di lì il monastero di Notre-Dame di Lure, che pare sia stato un raggruppamento di eremiti. Abbiamo ancor meno informazioni sul monastero di Pignans, nella diocesi di Fréjus, fondato nello stesso periodo, che adoperò la regola di sant’Agostino, e su quello di Saint-Martin di Castillon, nella diocesi di Apt, che fu una filiale di Ménerbes. Forse bisognerebbe escludere dall’influsso di san Cesario l’importante monastero di Saint-André di Agde, dal momento che sembra che le sue origini risalgano alla fine del V secolo. Ma, in seguito, tale influsso è possibile, perché il suo fondatore – san Severo, vissuto prima da eremita, poi da anacoreta – divenne alla metàdel VI secolo l’abate di una comunità di trecento monaci. E possiamo supporre che il vescovo di Arles non sia stato estraneo all’ingrandimento di questo monastero[335].

Il più famoso tra i discepoli monastici di san Severo fu san Massenzio: nato ad Arles intorno al 450, si fece monaco in età molto giovane nel monastero di Saint-André. La grandezza delle sue virtù causò una così grande ammirazione che Massenzio fuggì per non peccare di orgoglio. Si fece eremita nella Narbonese, ma poi dovette spostarsi e fuggire altrove, perché scoperto dalla gente nel Poitou, ove pensava di trovare una tranquillità eremitica. Dal momento che ancora una volta divenne spettacolo per i curiosi, Massenzio chiese di essere ammesso nel monastero dell’abate Agapito, al quale poi successe. Dato che aveva accettato tutto ciò solamente a stento, decise presto di vivere da recluso sul territorio del monastero. I monaci accettarono tale situazione, a condizione però che egli rimanesse abate titolare del loro monastero e li dirigesse dalla reclusione. Massenzio morì nel 515. L’abbazia e la cittadina ricevettero il suo nome[336].

Per quanto riguarda i primissimi monasteri femminili nella Gallia meridionale, le certezze sono ancora più deboli. Possediamo, in proposito, una lettera di san Cesario di Arles indirizzata ad una badessa[337] , dalla quale possiamo dedurre che ella fosse sua figlia spirituale e che guidasse una comunità monastica di cui il vescovo di Arles era il fondatore[338]. Infine, il monastero di Saint-Pierre du Puy, ad Orange, che era benedettino nel XII secolo e cisterciense nel XIII, fu stabilito dallo stesso san Cesario sul monte Eutropio, prima che fosse spostato all’interno delle mura della città [339].

Durante il governo monastico della badessa santa Liliola, una lontana discepola di presentò al convento di San Giovanni, affinché fosse iniziata alla regola di san Cesario: era Radegonda, moglie separata di re Clotario, che, costretta a sposarsi, aveva infine ottenuto che le si rendesse la libertà, e che nel 415 aveva fondato, a Poitiers, il monastero di Santa Croce. Radegonda, cercando una regola che potesse assicurare (alle principesse e alle nobildonne che l’avevano seguito nel chiostro) sia la disciplina monastica che una certa moderazione, aveva sentito dell’equilibrio in cui vivevano le monache di Arles. Così, nel 568, Radegonda chiese a Liliola una copia della regola di san Cesario e, dopo averla letta, venne con la badessa Agnese ad Arles per viverla e im-pararla. Di seguito, di ritorno a Poitiers, Radegonda ed Agnese adottarono questa regola per la loro comunità [340].

Un altro continuatore dell’opera monastica di san Cesario fu, nel VI secolo, sant’Aureliano († 16 giugno del 551), il secondo successore di san Cesario di Arles, dove rimase soltanto dal 546 alla morte. Ciò nonostante, in questo breve periodo, egli fondò ad Arles due monasteri: prima di San Pietro e San Paolo (maschile) [341] , a cui diede come abate Fiorentino, che aveva all’epoca sessantacinque anni e che sarebbe morto cinque anni dopo (nel 553) [342] e, poi, di Santa Maria (femminile). Aureliano scrisse due nuove regole: la Regula ad monachos[345] e la Regula ad virgines[344]. Queste due regole si ispirano prevalentemente a san Cesario[345] e, secondariamente, a sant’Agostino e a san Giovanni Cassiano. Può essere anche visto in esse un influsso di san Benedetto[346].

La „Regola” di sant’Aureliano rafforza la clausura applicandola ai monaci con la medesima rigidità che alle monache; persino la propria madre non può accederci[347]. Anche per quanto concerne i cosiddetti oblati vediamo una rigidità maggiore rispetto alla „Regola” di san Cesario. Infatti, il vescovo di Arles accettava gli oblati a cominciare dai sei anni; Aureliano, invece, ne richiede dieci o dodici[348]. Mitiga, però, l’astinenza per i monaci i quali nei giorni di festa i monaci possono mangiare il pesce[349].

Ma soprattutto sant’Aureliano di Arles ampliò e corresse notevolmente l’ufficio liturgico dei monaci. Lo divise in otto ore canoniche. Per evitare un tempo vuoto, Aureliano introdusse l’ora „seconda” [350] , che doveva preparare i religiosi al lavoro, e l’ora „dodicesima” [351] , staccata dal vespro e dalla „compieta”. Così abbiamo: il mattutino (all’aurora), la prima (tra le sei e le sette), la seconda (alle otto), la terza (alle nove), la sesta (a mezzogiorno), la nona (alle quindici), il vespro (alle diciotto), la dodicesima (verso le diciannove), e la compieta (prima di coricarsi).

Sant’Aureliano modifica anche l’ufficio del mattutino. Fuori del tempo pasquale, esso inizia con un cantico preso dalla Bibbia (la scelta è dell’abate); seguono otto salmi (42, 62 e i sei ultimi, da 145 a 150); poi un inno cantato (alternativamente Splendor paternae gloriae e Aeternae lucis conditor) e un capitolo; conclude il Kyrie eleison, cantato dodici volte[352]. Durante il tempo pasquale, l’ufficio è molto più vicino a quello di san Cesario. Prima vengono i salmi: 144, 42, 62, 135, il Cantico di Mosè, il salmo 145, il Cantico dei tre giovani e i tre ultimi salmi: 148-150, il che fa dieci parti liturgiche che hanno per antifona un „alleluia”, eccetto il salmo di apertura. L’ufficio finisce col Cantico Magnificat[353].

10. Conclusione

L’articolo ha presentato, in modo piuttosto dettagliato, il più antico movimento monastico latino in Gallia. Il suo più grande e pri-missimo iniziatore e promulgatore fu, senza dubbio, san Martino di Tours.

Il primissimo monachesimo in Gallia era di stampo cittadino. La presenza di questi monaci che vivevano in città era d’aiuto per il clero. Accanto a questo movimento monastico urbano dobbiamo anche ricordare le vergini consacrate che conducevano una vita cenobitica. Ci furono anche delle recluse.

Una figura simile a san Martino di Tour fu san Vittricio di Rouen. Divenuto vescovo, visse da monaco-vescovo. Combatté contro il paganesimo rurale. Il suo influsso oltrepassò i confini della provincia. Fondò almeno un monastero femminile e due maschili, e anche un monastero a Thérouanne. Durante i suoi viaggi pastorali cercava di insediare anche in diversi luoghi gruppi di monaci. Grazie all’azione di san Vittricio, nel nord delle Gallie, nelle terre di Boulogne, Artois e nelle Fiandre occidentali sorgevano numerosi eremi e cenobi.

Un altro importante propagatore del monachesimo gallico fu san Giovanni Cassiano. Natione Scytha, egli nacque intorno al 360 in Dobrugia. Andò in pellegrinaggio in Palestina e lì si fece monaco in un monastero di Betlemme. Fu attratto dalla fama dei monaci egizi. Ebbe modo di fare diverse visite ad altri gruppi monastici.

Ritornò in Palestina per ottenere il permesso di rimanere stabilmente in Egitto. Il suo soggiorno, però, durò fino al 400 circa. Poi venne a Costantinopoli ove san Giovanni Crisostomo lo ordinò diacono.

Giovanni Cassiano, incaricato dal clero fedele al Crisostomo, portò a Roma un’ambasceria al papa Innocenzo I. Nell’Urbe conobbe Palladio, Rufino e santa Melania la Giovane.

Ordinato prete probabilmente da Alessandro di Antiochia, e sbarcato a Marsiglia intorno al 415, chiese al vescovo Procolo ove potesse trovare un luogo per condurvi vita eremitica; invitato dal vescovo a fondare un monastero cenobitico, fondò il cenobio, detto Paradisus, che si trovava a sud dell’attuale Vieux Pont. In seguito, fondò il monastero femminile di San Salvatore, situato all’interno della vecchia cinta muraria della città. San Giovanni Cassiano morì a San Vittore intorno al 435.

Un altro grande propagatore del primissimo monachesimo gallico fu sant’Onorato. Quando egli fondò, nel 405, la comunità monastica di Lerino, nella Provenza esisteva solo il monastero di Embrun fondato da san Marcellino, intorno al 360, e costituito da una comunità clericale.

Non si conoscono esattamente la data e il luogo di nascita di sant’Onorato; si presume sia avvenuta nel 365 in Lorena o in Borgogna, da una famiglia della nobiltà gallo-romana; ricevette un’educazione elevata, cui volle unire la formazione alla fede.

Probabilmente nel 386, sentì la chiamata alla vita eremitica e si avviò in un asceterio sito nei possedimenti familiari, forse presso Cannes, seguendo la regola comune agli eremiti. Intorno al 394, si trasferì su isole, probabilmente le isole di Hyères, lasciandosi guidare da san Caprasio. In seguito, si spostò a Marsiglia e in Grecia, nella quale si costituì una laura essendo ormai aumentato il numero del gruppo.

Verso il 403, ritornò a Fréjus presso il vescovo Leonzio, cercava un’isola deserta sulla quale collocare la comunità, e la trovò nell’isola di Lerino.

Nel 427, Onorato fu chiamato sulla sede metropolitana di Arles. Fiaccato dalla malattia e allettato, sant’Onorato continuava a ricevere pellegrini. Non volle venir meno ai suoi impegni pastorali, neanche il giorno dell’Epifania del 430, quando si alzò per la celebrazione solenne. Otto giorni dopo morì, ma la sua opera continuò a vivere.

Un altro rappresentante del primissimo monastico gallico fu sant’Ilario di Arles. Egli nacque intorno al 401, ed era parente di sant’Onorato di Lerino. La Vita anonima di san Lupo di Troyes parla di una sorella di sant’Ilario, di nome Pimeniola, sposa dello stesso san Lupo. Inoltre, la medesima Vita sostiene che anche sant’Ilario fosse natio della Gallia Belgica, come san Lupo.

prima del 420, sant’Onorato decise di attirare sant’Ilario. Sembrerebbe, però, che sant’Ilario non volesse ascoltarlo, perché sant’Onorato ritenne necessario andare a conquistare sant’Ilario sul posto. Sant’Onorato iniziò a parlargli, ma egli non l’ascoltava. Quindi, sant’Onorato iniziò a pregare e partì senza averlo convinto. Nei due giorni che seguirono, una tempesta spirituale si abbatté su sant’Ilario ed egli si convinse e si fece monaco a Lerino.

Nel 427, sant’Onorato, fu eletto vescovo di Arles, e sant’Ilario lo seguì nella città episcopale. Ma l’amore della quiete monastica ebbe il sopravvento, per cui tornò a Lerino. Sant’Onorato vedeva in sant’Ilario il migliore dei suoi successori. Dunque, lo richiamò presso di sé. Ma appena sant’Onorato fu sepolto, sant’Ilario fuggì di lì, ma quando aveva ventotto anni, Cassio, comandante delle truppe romane, mandò un gruppo di soldati che lo ricondusse ad Arles.

La sua prima azione fu di fondare, presso il suo palazzo vescovile, un monastero in cui inviò i suoi chierici e si scelse una cella. Al primo monastero che aveva fondato, sant’Ilario ne aggiunse altri.

Sant’Ilario ebbe una parte di primo piano, nel 429, al concilio delle Gallie; presiedette i concili: di Riez, nel 439; di Oranges, nel 441; di Vaison, nel 442. Morì il 5 maggio del 449, all’età di quarantotto anni.

Anche sant’Eucherio di Lione proveniva dall’alta aristocrazia gallo-romana. Aveva sposato una certa Galla, dalla quale ebbe due figli. Dopo alcuni anni di matrimonio, però, decise di consacrarsi a Dio. Fu attirato da Lerino. Lo ricevette sant’Onorato sia come ospite sia come postulante, ma vi rimase poco tempo, perché ciò che l’attraeva era la vita eremitica. Si stabilì, quindi, sull’isola di Lera. I due sposi si stabilirono ciascuno in un romitorio.

Sant’Eucherio intrattenne una corrispondenza con sant’Onorato, san Paolino di Nola e con san Giovanni Cassiano. Quando, intorno al 435, morì il vescovo di Lione – Senatore – fu scelto a succedergli proprio sant’Eucherio.

Un altro monaco gallico, san Lupo di Troyes, apparteneva allo stesso ceto sociale. Nacque a Toul verso il 395. Intraprese la carriera di avvocato. Verso il 418, sposò Pinieniola. Sua moglie ed egli stesso scelsero di seguire i consigli evangelici. San Lupo scelse la comunità monastica di Lerino.

Nel 427, san Lupo dovette recarsi nella regione di Mâcon per concludere una questione d’eredità. Il vescovo di Troyes, sant’Orso, era appena morto. I delegati del clero comunicarono a Lupo la sua elezione. Lupo, però, condusse da vescovo una vita simile a quella dei rigidi monaci egiziani.

Nel 429, san Lupo fu incaricato dai Padri del concilio di Arles, di andare con san Germano d’Auxerre, in Bretagna a combattere l’eresia pelagiana.

Quando Attila marciò verso Troyes, Lupo gli tenne un discorso così convincente che gli Unni non distrussero la città. Dopo essere stato sconfitto, Attila chiese a san Lupo di accompagnarlo fino al Reno. Lupo acconsentì, ma quell’atto fu ingiustamente interpretato come intesa con il nemico e il vescovo fu deposto. Ne approfittò, però, per costruirsi un eremitaggio. Vi rimase soltanto due anni, perché fu richiamato in sede. Morì, nel 479.

Un altro monaco gallico, Vincenzo di Lerino, era di nobile stirpe e aveva ricoperto vari incarichi nell’amministrazione imperiale. È noto soprattutto grazie alla sua opera teologica: il Commonitorium.

Anche san Salviano era un aristocratico, nato a Colonia o a Treviri. Studiò a Treviri. Nel 427, uscì dal monastero di Lerino e passò al clero della diocesi di Marsiglia.

Pubblicò un’opera De virginitatis bono ad Marcellum presbyterum e quattro libri dell’Ad Ecclesiam. Scrisse, inoltre, importanti trattati teologici, dei quali il più importante è il De gubernatione Dei. Ma aveva anche scritto una quantità di altre opere, non pervenuteci. Morì a Marsiglia, nel 496, in qualità di prete della cattedrale.

San Massimo di Riez, un altro rappresentante del monachesimo paleocristiano gallico, nacque a Decomer presso Digne. Chiese l’abito a sant’Onorato. Fu uno degli anziani che aiutavano l’abate nel governo del monastero. Nel 427, sant’Onorato indicò san Massimo a succedergli nell’abbaziato. Quando, nel 432, morì san Leonzio, Massimo fu eletto alla sede di Fréjus. Massimo fuggì e per Fréjus fu scelto un altro vescovo. Nel 434, essendo vacante la sede di Riez, il suo nome uscì dalle urne. I capitolari giunsero in monastero, condussero l’abate nella cattedrale e l’ordinarono vescovo. San Massimo mostrò le stesse virtù che aveva praticato nel chiostro. Partecipò al concilio di Riez nel 439, di Orange nel 441, di Vaison nel 442, e al concilio di Arles (negli anni 449-461). Ignoriamo la data esatta della sua morte.

Fausto di Riez, terzo abate di Lerino (dal 433 al 457), nacque nella Britannia poco prima del 410. Verso il 424, si fece monaco a Lerino. Quando, nel 433, san Massimo divenne vescovo di Riez, Fausto gli succedette nell’abbaziato. Ordinato sacerdote, si sforzò di mantenere il fervore primitivo. Intorno 460, Fausto divenne vescovo di Riez e lo fu fino all’anno 477, quando il re dei Goti, Eurico, lo esiliò a causa del suo antiarianesimo e delle vicende collegate all’occupazione dell’Alvernia e della Provenza da parte dei Visigoti. Nel 462, Fausto partecipò ad un concilio romano in qualità di rappresentante dei vescovi della Gallia. Fausto tornò a Riez probabilmente verso il 485.Per quando riguarda la data della sua morte, essa viene stabilita in base alla lettera di Avito scritta prima del 500, dalla quale risulta che il vescovo di Riez era deceduto già da alcuni anni.

Degli altri primissimi monaci gallici più importanti furono: san Nazario, san Porcario, san Rustico, san Valeriano, sant’Antonio Ciro, san Domiziano.

Per quanto riguarda il monachesimo della Borgogna, bisogna indicare ovviamente san Germano. Nato ad Auxerre nel 380 circa. Nominato generale delle truppe d’Aquitania e delle province lionesi, fu ordinato sacerdote dal vescovo sant’Amatore e nel 418, alla morte dello stesso sant’Amatore, fu acclamato dal popolo vescovo. Abbracciò la povertà radicale e la castità assoluta assieme alla moglie che si trasferì e prese ad occuparsi di opere caritative.

Un altro primissimo monaco gallico fu san Paolino di Nola. Nato nel 354-355 a Burdigala, introdusse il monachesimo martiniano in Italia. Il matrimonio con Terasia non lo distrasse dall’ardore cristiano. Si decise per la vita ascetica, ritirandosi nelle sue proprietà spagnole, assieme alla moglie. Il giorno di Natale 393 (o 394), nella cattedrale di Barcellona, fu acclamato sacerdote, alla condizione, posta da san Paolino, di non essere incaricato in alcuna chiesa precisa. A questo punto, in partenza con Terasia per Nola, volle essere guidato da una regola, e l’unica da lui reperibile fu quella di Marmoutier. Alla morte di san Paolo, vescovo di Nola, nel 409, Paolino, fu designato come successore. Morì nel 431.

Un importante centro monastico fu quello del Giura. Conosciamo i suoi inizi grazie alla Vita Sanctorum Patrum Iurensium Romani, Lupicini, Eugendi. Non sembra che nei monasteri del Giura vigesse una regola scritta durante il V secolo. Ciò può essere anche dedotto dalla stessa Vita SS. Patrum Iurensium. Infatti, gli stessi santi padri fondatori – Romano, Lupicino ed Eugendo – con la loro santità gettarono le fondamenta nel Giura di una forma peculiare di vita ascetico-monastica che non ricalca in modo servile né il primissimo movimento monaco orientale come tale, né i più antichi monasteri in Gallia. I monasteri fondati da questi tre asceti erano diretti da un abate che veniva aiutato, a sua volta, da un co-abate e da diversi padri governatori. Un economo, invece, si occupava dei beni temporali. Inizialmente sia la comunità monastica di Condat sia quella di Laucone era composta da gruppi di eremiti. Soltanto sant’Eugendo impose ai religiosi di vivere da cenobiti in un’unica casa con un unico refettorio e oratorio. Persino tutti i monaci dovevano dormire insieme in un comune dormitorio.

Uno dei più importanti primissimi fondatori del monachesimo gallico fu san Cesario di Arles. Nacque nel 470 nel territorio della città di Cabillon. All’età di diciott’anni, Cesario chiese al suo vescovo Silvestro di poter diventare chierico e così per circa due anni rimase nella gerarchia della Chiesa cittadina. Forse sarebbe diventato diacono e sacerdote della Chiesa di Chalon, se non avesse avuto occasione di conoscere il monachesimo egiziano. Nel 490-491, andò a Marsiglia all’abbazia di San Vittore. L’abate voleva tenere Cesario con sé, ma egli, avendo appreso che nell’isola di Lerino si era formata una comunità monastica, andò a Lerino ove fu accettato nel monastero dell’abate Porcario. Nella comunità monastica di Lerino Cesario ebbe, oltre che alla preparazione teologico-monastico-liturgica, anche una formazione culturale e in-tellettuale. Nel monastero di Lerino Cesario edificò la comunità con la pietà, l’umiltà, la mortificazione, l’ubbidienza ed adoperò una regola di vita monastica molto severa. L’abate Porcario, quindi, lo costrinse, prima del 499, ad andare ad Arles. Qui fu accolto da una coppia di pii laici: Gregoria e Firmino.

Gregoria era parente dello stesso Cesario. La casa di Gregoria e di Firmino era a un tempo un centro culturale, un ricovero, una mensa dei poveri, un ospedale, una sede di catechesi. In quella casa, ad Arles san Cesario frequentò le lezioni del retore africano Giuliano Pomerio. Tale esperienza fu di breve durata: Cesario abbandonò del tutto la cultura classica.

Il vescovo di Arles, Eonio ottenne dall’abate Porcario l’auto-rizzazione a prendere Cesario come membro del suo clero. Eonio ordinò dapprima Cesario diacono e, in seguito, sacerdote. Cesario conservò, però, l’abito monastico. Nel 499 (o nel 500), a san Cesario fu affidata anche la direzione amministrativa di un monastero in suburbana insula ciuitatis dato che l’abate non era adeguato a ricoprire la direzione di esso; Cesario aveva esattamente trent’anni. Per ristabilire in quel monastero la disciplina monastica, Cesario compose una regola incentrata su una rigida ubbidienza monastica e il monastero non tardò a farsi una rinomanza straordinaria.

Dopo più di tre anni di assoluto isolamento, il vescovo Eonio ritenne di aver trovato in san Cesario il suo successore. La prima preoccupazione del nuovo vescovo-monaco-metropolita fu la formazione del clero. Fondò nella sua casa vescovile una scuola in cui i ragazzi studiavano lettere e canto, partecipavano alle liturgie della chiesa cattedrale e si preparavano a ricevere il battesimo.

La città si trovava allora sotto il governo del re visigoto Alarico II che era ariano, e Cesario dovette subire tante situazioni politiche difficili, dalle quali seppe trarre vantaggi per la Chiesa.

Cesario fu sospettato di tradimento ed esiliato a Burdigala. Ciò avvenne ad opera di un tale Liciniano. Infatti, nel 505, questo chierico fece capire al re Alarico II che san Cesario cospirava contro lo stato insieme al re dei Burgundi, Gondebaudo. Così il vescovo di Arles fu esiliato. Cesario, però, ne approfittò per menare vita eremitica. Nel 506, però, san Cesario conquistò di nuovo la fiducia del re.

Stando a Burdigala, Cesario strinse rapporti con i vescovi della Gallia occidentale (Cipriano di Burdigala e Ruricio di Limoges). Anche nel 506, il vescovo di Arles cominciò la costruzione del monastero femminile di San Giovanni, che fu portata a termine nel 512. Voleva che esso fosse edificato vicino a lui per poterlo istruire e proteggere. Ciò nonostante, voleva che sorgesse fuori della città di Arles. Scelse, perciò, gli Alyscamps. Dopo la battaglia, però, di Vouillé, in cui il re Clodoveo sconfisse Alarico II, Franchi e Burgundi misero l’assedio proprio davanti alla città di Arles e demolirono il monastero quasi finito, per costruire delle trincee. Gli Ostrogoti, però, attaccarono gli assedianti, che dovettero cedere e ritirarsi. I costruttori, allora, ripresero la costruzione del monastero, che durò dal 508 al 513, data della consacrazione. La prima badessa di quel monastero fu santa Cesaria, sorella di san Cesario. Numerose vergini e vedove si unirono a lei. San Cesario diede a loro una regola.

Alcuni mesi dopo la consacrazione del monastero, però, santa Cesaria morì e fu sostituita da un’altra Cesaria, chiamata la Giovane. Il numero delle monache salì allora a duecento. Alla morte di quell’ultima badessa, le successe santa Liliola e, poi, santa Rusticola.

Dopo la vittoria degli Ostrogoti, san Cesario cominciò ad alleviare le disgrazie della guerra. Il vescovo pensò che il più necessario dei suoi compiti era il riscatto dei prigionieri. Vendette, quindi, tutti gli oggetti ecclesiastici di valore.

Da quando la regione passò alla dominazione degli Ostrogoti (508-536), san Cesario di nuovo fu accusato di tradimento e convocato a Ravenna dal re Teoderico (512-513), ma riuscì a dimostrare la sua innocenza e ottenne la liberazione della popolazione di Orange, che era stata fatta prigioniera. San Cesario si recò, poi, da Ravenna a Roma ed incontrò papa Simmaco dal quale ottenne, nel 513, la conferma dei diritti metropoliti della Chiesa di Arles contro quella di Vienne. Cesario fu in relazioni di sottomissione non solo con papa Simmaco ma con tutti i sette papi che governavano la Chiesa durante il suo episcopato.

Nel 514, papa Simmaco, confermò a Cesario i privilegi di vicario della Sede Apostolica per la Spagna e per la Gallia. Da quell’anno, quindi, Cesario esercitò un’influenza sempre più crescente su tutta la Gallia, presiedendo, tra l’altro, cinque concili provinciali.

Nel 534, san Cesario ultimò definitivamente la regola delle monache. Nell’ultimo anno della vita (543) la salute di san Cesario diminuiva sempre di più: perdeva di continuo conoscenza in pubblico. Come diceva, aspettava per morire la festa del suo amato sant’Agostino. Quando questo giorno si avvicinò, Cesario volle essere trasportato all’ora dell’ufficio presso le sue monache di San Giovanni. San Cesario disse addio alla badessa Cesaria e rivolse alle monache l’esortazione ad essere fedeli alla regola. Vicino al letto del moribondo si erano riuniti alcuni vescovi della sua provincia ecclesiastica, i sacerdoti, i diaconi, gli amici. Morì proprio il 27 agosto 543.

L’influsso di san Cesario fu considerevole e durò per molte generazioni. Ciò nonostante, la sua Regula non ebbe tanta diffusione fuori della Provenza. Le comunità monastiche formate da san Cesario diedero alla luce personalità ecclesiastiche di alto rango. Uno dei più famosi di esse fu san Cipriano di Tolone. Morto il vescovo di Tolone, nel 524, Cipriano fu eletto a succedergli e guidò quella Chiesa per ventidue anni. San Cesario compose la prima parte della Vita S. Caesarii nella quale inserì tutto ciò che sapeva su san Cesario, sulle sue azioni e le virtù. Avendo, però, paura di aver tralasciato qualche cosa, spedì il manoscritto ad un suo amico – san Firmino, anch’egli allievo di san Cesario.

San Firmino nacque verso il 509 nei dintorni di Narbona. Nel 528, si trasferì presso Ruricio, zio paterno che era vescovo di Uzès. Lo zio lo educò nelle scienza ecclesiastiche e lo ordinò sacerdote. Nel 529 Ruricio morì e san Firmino divenne suo successore. San Firmino apprezzava molto il metropolita san Cipriano e i due divennero amici. Cipriano, perciò, chiese a Firmino di correggere e perfezionare la biografia di san Cesario.

Quando nel 514 il sacerdote Messiano andò da papa Simmaco per presentare una domanda in favore della diocesi di Arles, andò con lui un abate, Egidio. Conosciamo, inoltre, tanti altri chierici famosi formati al monastero di Arles. Uno di essi fu san Teuderio che fondò varie comunità monastiche nella diocesi di Vienne. Anche Floriano, abate presso Milano, si dichiara discepolo di san Cesario d’Arles.

Il monastero di Saint-André di Villeneuve, presso Avignone, ha un’origine poco chiara, ma una cronaca vi fa morire, nel 586, una certa santa Cesaria, monaca, che deve appartenere alla famiglia di san Cesario.

Il più famoso tra i discepoli monastici di san Severo fu san Massenzio: nato ad Arles intorno al 450, si fece monaco nel monastero di Saint-André. La grandezza delle sue virtù causò una così grande ammirazione che Massenzio fuggì per non peccare di orgoglio. Si fece eremita nella Narbonese, ma poi dovette spostarsi e fuggire altrove, perché scoperto dalla gente nel Poitou, ove pensava di trovare una tranquillità eremitica. Dal momento che ancora una volta divenne spettacolo per i curiosi, Massenzio chiese di essere ammesso nel monastero dell’abate Agapito, al quale successe. Dato che aveva accettato ciò solamente a stento, decise di vivere da recluso sul territorio del monastero e i monaci accettarono tale situazione, a condizione però rimanesse abate titolare e dirigesse i monaci dalla reclusione. Massenzio morì nel 515.

Per quanto riguarda i monasteri femminili, le certezze sono ancora più lievi. Possediamo una lettera di san Cesario indirizzata alla badessa Oratoria, da cui possiamo dedurre che ella fosse sua figlia spirituale e che guidasse una comunità monastica di cui il vescovo di Arles era il fondatore. Secondo la tradizione, il monastero il Saint-Pierre du Puy, a Orange, fu stabilito dallo stesso san Cesario sul monte Eutropio.

Gli atti del VI secolo menzionano anche la regola di sant’Aureliano. Questi fu il secondo successore di san Cesario, dove rimase soltanto quattro anni – dal 546-550. Ciò nonostante, egli fondò ad Arles due monasteri: Santa Maria (per le donne), San Pietro (per gli uomini), a cui diede come abate Fiorentino, che aveva all’epoca sessantacinque anni e che sarebbe morto cinque anni dopo (nel 553). Egli scrisse due nuove regole: gli Instituta sanctae regulae e l’Institutio sanctae regulae.

Cf. Sulpicius Severus, Vita S. Martini, in J.W. Smit (ed.), Vita Martini, in A.A.R. Bastiaensen – J.W. Smit, Vita di Martino, Vita di Ilarione, In memoria di Paola [= „Vite dei Santi”, 4], [s.l.] 1983, 1-67.

Cf. Sulpicius Severus, Vita S. Martini 25, 8.

Cf. ibidem 2, 5.

Cf. ibidem 5, 1-2.

Cf. ibidem 5, 4-6.

Cf. ibidem 6, 1-3.

Cf. ibidem 6, 4.

Cf. ibidem 7, 1-7.

Cf. ibidem 8, 1.

Cf. ibidem 8, 2-3.

Cf. ibidem 9, 1-7.

Cf. ibidem 10, 1-3.

Cf. ibidem 14, 4.

Cf. ibidem 18, 3-5.

Cf. ibidem 12, 1-5; 13, 1-9; 14, 1-7; 15, 1-4.

Cf. ibidem 13, 9.

Cf. ibidem 29; Paulinus Nolanus, Epistula 18, 9.

Cf. Sulpicius Severus, Chronica 2, 49-50.

Cf. Gregorius Turonensis, De uirtutibus S. Martini 4, 31.

Cf. B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, in Vescovi e pastori in epoca teodosiana. In occasione del XVI centenario della consacrazione episcopale di S. Agostino, 396-1996. XXV Incontro di studiosi dell’antichità cristiana, Roma, 8-11 maggio 1996, Istituto Patristico „Augustinianum” [= „Studia Ephemeridis «Augustinianum»”, 58], I, Roma 1996, 104-105; Idem, Opaci okresu Teodozjańskiego, „Dissertationes Paulinorum” 9 (1996) 27.

Cf. Sulpicius Severus, Vita S. Martini 10, 6.

Cf. ibidem 23.

Cf. ibidem 10, 8.

Cf. B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, art. cit., 106-107; Idem, Opaci okresu Teodozjańskiego, art. cit., 30.

Cf. Sulpicius Severus, Vita S. Martini 10, 5.

Cf. ibidem 10, 4.

Cf. ibidem 10, 5.

Cf. ibidem 26, 3.

Cf. ibidem 10, 6.

Cf. ibidem 10, 6, in J.W. Smit (ed.), Vita Martini, op. cit., 28: „Nemo ibi quicquam proprium habebat, omnia in medium conferebantur. Non emere aut vendere, ut plerisque monachis moris est, quicquam licebat; ars ibi, exceptis scriptoribus, nulla habebatur, cui tamen operi minor aetas deputabatur: maiores orationi vacabant”.

Cf. Sulpicius Severus, Dialogi 2(3) 10.

Cf. Idem, Vita S. Martini 10, 6-7.

Cf. Sulpicius Severus, Vita S. Martini 10, 7, in J.W. Smit (ed.), Vita Martini, op. cit., 28. 30: „Cibum una omnes post horam ieiunii accipiebant. Vinum nemo noverat, nisi quem infirmitas coegisset”.

Cf. ibidem 10, 8.

Cf. G.M. Colombás, Il monachesimo delle origini [= „Complimenti alla Storia della Chiesa”; „Già e non ancora”, 106], Milano 1984 (prima ristampa: 1990), 277-278.

Cf. Sulpicius Severus, Epistula 3, 18.

Cf. G.M. Colombás, op. cit., 256; B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, art. cit., 106-107; Idem, Opaci okresu Teodozjańskiego, art. cit., 30.

Di san Sulpicio Severo scrive Gennadio di Marsiglia nel De scriptoribus ecclesiasticis 19, PL [= J.-P. Migne (ed.), Patrologiae Latinae cursus completu] 58, 1072-1073: „Severus presbyter, cognomento Sulpitius, Aquitanicae provinciae, vir genere et litteris nobilis, et paupertatis atque humilitatis amore conspicuus, clarus etiam sanctorum virorum Martini Turonensis episcopi, et Paulini Nolensis notitia, scripsit non contemnenda opuscula. Nam epistolas, ad amorem Dei et contemptum mundi hortatorias, scripsit sorori suae multas, quae notae sunt. Scripsit ad Paulinum praedictum duas, et ad alios alias. Sed quia in aliquibus etiam familiaris necessitas inserta est, non digeruntur. Composuit et Chronica. Scripsit et ad multorum profectum vitam B. Martini monachi et episcopi, signis et prodigiis ac virtutibus illustris viri: et collationem Postumiani et Galli, se mediante et iudice, de conversatione monachorum Orientalium et ipsius Martini habitam, in Dialogi speciem, tribus incisionibus comprehendit. In quarum priore refert, suo tempore apud Alexandriam in synodo episcoporum decretum Origenem cautius a sapientibus pro bonis legendum, et a minus capacibus pro malis refutandum. Hic in senectute sua a Pelagianis deceptus, et agnoscens loquacitatis culpam, silentium usque ad mortem tenuit, ut peccatum quod loquendo contraxerat, tacendo poenitens emendaret”.

Cf. Paulinus Nolanus, Epistula 5, 5; Epistula 11, 1.

Cf. Idem, Epistula 1, 1; Epistula 5, 5.

Cf. Sulpicius Severus, Epistula 3; Paulinus Nolanus, EpistulaEpistula 5, 6.

Cf. J. Fontaine (ed.), Sulpice Sévère. Vie de Saint Martin [= „Sources Chré-tiennes”, 133], I, Paris 1967, 32-40.

Cf. I. Gobry, Storia del monachesimo, I, Roma 1991, 469-470.

Cf. B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, art. cit. , 107; Idem, Opaci okresu Teodozjańskiego, art. cit. , 30.

Cf. I. Gobry, op. cit. , 470; B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, art. cit. , 107; Idem, Opaci okresu Teodozjańskiego, art. cit., 30.

Cf. B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, art. cit. , 107; Idem, Opaci okresu Teodozjańskiego, art. cit. , 30.

Cf. Sulpicius Severus, Vita S. Martini, in J.W. Smit (ed.), Vita Martini, in A.A.R. Bastiaensen – J.W. Smit, Vita di Martino, Vita di Ilarione, In memoria di Paola [= „Vite dei Santi”, 4], [s. l.] 1983, 1-67; SCh [= Sources Chrétiennes] 133-135

Cf. Sulpicius Severus, Dialogi, PL 20, 183-222; CSEL [=Corpus Scriptorum Eccesiasticorum Latinorum] 1, 152-216.

Cf. Sulpicius Severus, Epistulae, PL 20, 175-188; CSEL 1, 138-151; SCh 133, 316-344.

Cf. Athanasius Alexandrinus, Vita Sancti Antonii, PG [= J.-P. Migne (ed.), Patrologiae Graecae cursus completus] 26, 837-976; SCh 400.

Cf. Hieronymus, Vita Sancti Pauli Primi Eremitae, PL 23, 17-30; R. [= B.] Degórski (ed.), Edizione critica della „Vita Sancti Pauli Primi Eremitae” di Girolamo, Institutum Patristicum „Augustinianum”, Roma 1987. Cf. anche la traduzione italiana: B. Degórski, San Girolamo. Vite degli eremiti: Paolo, Ilarione, Malco [= „Collana di Testi Patristici”, 126], Roma 1996, 63-89.

Cf. Hieronymus, Vita Sancti Malchi monachi captivi, PL 23, 55-62; E.M. Morales (ed.), Edición crítica de „De Monacho captivo” („Vita Malchi”) de San Jerónimo, Institutum Patristicum „Augustinianum”, Roma 1991. Cf. anche la traduzione italiana: B. Degórski, San Girolamo. Vite degli eremiti…, op. cit. , 152-175.

Cf. Hieronymus, Vita Sancti Hilarionis, PL 23, 29-54; A.A.R. Bastiaensen – J.W. Smit, Vita di Martino, Vita di Ilarione, In memoria di Paola [= „Vite dei Santi”, 4], [s.l.] 1983, 72-132. Cf. anche la traduzione italiana: B. Degórski, San Girolamo. Vite degli eremiti…, op. cit. , 90-151.

Cf. Sulpicius Severus, Dialogi 2, 12.

A proposito di san Vittricio di Rouen, Cf. J. Mulders, Victricius van Rouaan. Leven en leer, „Bijdragen, tijdschrift voor filosofie en theologie” 17 (1956) 1-25; 18 (1957) 19-40, 270-289; P. Andrieu-Guitancourt, La vie ascétique à Rouen au temps de saint Victrice, „Recherches des science religieuse” 40 (1951) 90-106.

Cf. G.M. Colombás, op. cit. , 257.

Cf. I. Gobry, op. cit. , 463.

Cf. Paulinus Nolanus, Epistula 18, 4; G.M. Colombás, op. cit. , 257.

Cf. Gennadius Massiliensis, De scriptoribus ecclesiasticis 62.

Cf. G.M. Colombás, op. cit. , 259; I. Gobry, op. cit. , 596.

Cf. G.M. Colombás, op. cit., 259. Di queste loro visite parlano principalmente le seguenti opere di san Giovanni Cassiano: De institutis coenobiorum e Conlationes patrum. Per le indicazioni più dettagliare circa queste opere, si veda poco più avanti.

Cf. ibidem 259-260.

Cf. G. Goyau, Mélanie, Paris 1912, 84; G.M. Colombás, op. cit. , 260.

Cf. G.M. Colombás, op. cit. , 260.

Cf. B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, art. cit. , 115; IDEM, Opaci okresu Teodozjańskiego, art. cit. , 42.

Cf. G.M. Colombás, op. cit. , 261.

Cf. F. André, Histoire de l’abbaye des religieuses de Sanit-Sauveur de Marseille, Marseille 1864; F. Bénoit, L’abbaye de Saint-Victor et l’église de la Major à Marseille, Paris 1936; L. Laurin, Notice sur l’ancienne abbaye Saint-Victor de Marseille, Marseille 1957; G.M. Colombás, op. cit. , 261.

Cf. Gennadius Massiliensis, De scriptoribus ecclesiasticis 62. Cf. anche F. Bordonali, Cassiano Giovanni, in A. Di Berardino (ed.), Dizionario patristico e di antichità cristiane, I, Casale Monferrato 1983, 615.

Cf. G.M. Colombás, op. cit. , 261.

Circa la teologia monastica di san Giovanni Cassiano, Cf. L.M. Mirri, Teologia della vita eremitica in san Cassiano, in M. Bielawski – D. Hombergen (ed.), Il monachesimo tra eredità e aperture. Atti del Simposio „Testi e temi nella tradizione del monachesimo cristiano” per il 50° anniversario dell’Istituto Monastico di Sant’Anselmo. Roma, 28 maggio – 1° giugno 2002, Roma 2004, 549-588.

Cf. Iohannes Cassianus, De institutis coenobiorumPL 49, 43-476; CSEL 17, 3-231; SCh 109. Cf. anche L. Dattrino, Giovanni Cassiano. Le istituzioni cenobitiche [= „Scritti monastici”, 13], Abbazia di Praglia, Bresseo di Teolo 1989.

Per una buona e concisa introduzione a quest’opera, Cf. L. Dattrino, Giovanni Cassiano. Le istituzioni cenobitiche…, op. cit. , 5-48.

Cf. F. Bordonali, art. cit. , I, 615.

Cf. Iohannes Cassianus, PL 49, 477-1321; CSEL 13; SCh 42; SCh 54; SCh 64. Cf. anche L. Dattrino, Giovanni Cassiano. Conferenze ai monaci [„Collana di testi patristici”, 155-156], I-II, Roma 2000.

L’opera è pubblicata in: PL 50, 9-270; CSEL 17, 235-391. Cf. anche L.M. Mirri, Il pensiero teologico di Cassiano nel „De incarnatione”, „Vox Patrum” 23 (2003) 259-284.

Cf. S. Pricoco, L’isola dei santi. Il cenobio di Lerino e le origini del monachesimo gallico, Roma 1978.

L’opera è pubblicata in: PL 50, 1249-1272. L’edizione critica è stata pubblicata da: S. Cavallin, Sermo de vita Sancti Honorati Arelatensis, Lund 1952 (Cf. „Vigiliae Christianae” 7 [1954] 116-117; „Vigiliae Christianae” 10 [1956] 157-159).

Cf. B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, art. cit. , 109; Idem, Opaci okresu Teodozjańskiego, art. cit. , 34.

Cf. Hilarius Arelatensis, Sermo de vita Sancti Honorati Episcopi Arelatensis 1, 4-8. Cf. anche I. Gobry, op. cit. , 566; G.M. Colombás, op. cit. , 263; B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, art. cit. , 109-110; Idem, Opaci okresu Teodozjańskiego, art. cit., 34.

Cf. Hilarius Arelatensis, Sermo de vita Sancti Honorati Episcopi Arelatensis 2, 9-14. Cf. anche B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, art. cit. , 110; Idem, Opaci okresu Teodozjańskiego, art. cit. , 34.

Cf. I. Gobry, op. cit. , 568-569.

Cf. Hilarius Arelatensis, Sermo de vita Sancti Honorati Episcopi Arelatensis 3, 15-17. Cf. anche B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, art. cit. , 110; Idem, Opaci okresu Teodozjańskiego, art. cit. , 34.

Cf. Hilarius Arelatensis, Sermo de vita Sancti Honorati Episcopi Arelatensis 4, 18-22. Cf. anche B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, art. cit. , 110; Idem, Opaci okresu Teodozjańskiego, art. cit. , 34-35.

Cf. Hilarius Arelatensis, Sermo de vita Sancti Honorati Episcopi Arelatensis 6, 25-28. Cf. anche B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, art. cit. , 110; Idem, Opaci okresu Teodozjańskiego, art. cit. , 35.

Cf. Hilarius Arelatensis, Sermo de vita Sancti Honorati Episcopi Arelatensis 7, 29-35. Cf. anche B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, art. cit. , 110; Idem, Opaci okresu Teodozjańskiego, art. cit. , 35.

Cf. G.M. Colombás, op. cit. , 264.

Cf. A. de Vogüé, Le Règles de saints Pères [= „Sources Chrétiennes”, 297-298], I-II, Paris 1982. La Regula Quattuor Patrum viene anche chiamata: Sanctorum Serapionis, Macharii [Macario il Grande, † 390], Paphnutii et alterius Macharii [Macario Alessandrino, † 394] regula ad monachos. Circa questa „Regola” e di altre primissime regole monastiche, Cf. S. Pricoco (ed.), La regola di S. Benedetto. Le regole dei Padri. Introduzione, testo critico, traduzione e commento, Milano 1995. Cf. Anche B. Degórski – L. Mirri, Eugippio. La Regola [= „Collana di testi patristici”, 183], Roma 2005, 77-78.

Cf. I. Gobry, op. cit. , 573.

Cf. ibidem 573-574; B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, art. cit. , 111; Idem, Opaci okresu Teodozjańskiego, art. cit. , 36.

Cf. B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, art. cit. , 111; Idem, Opaci okresu Teodozjańskiego, art. cit. , 36.

Cf. B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, art. cit. , 111-112; Idem, Opaci okresu Teodozjańskiego, art. cit. , 36.

Cf. Regula quattuor Patrum 3, 14-15. 22.

Cf. Regula quattuor Patrum 1, 8 – 2, 42; 4, 4-5. 7. 13. 17. Cf. anche B. Degórski, L’”abate” come pastore in epoca teodosiana, art. cit. , 112; Idem, Opaci okresu Teodo-zjańskiego, art. cit., 36-37.

Cf. Bibliotheca Hagiographica Latina 3882; B. Kolon, Die „Vita s. Hilarii Arelatensis„, Paderborn 1925. La Vita Sancti Hilarii Arelatensis è anche pubblicata in: PL 50, 1219-1246. Ovviamente, questo testo, però, non è critico.

Cf. A. Hamman, Scrittori della Gallia, in A. Di Berardino (ed.), Patrologia. Dal Concilio di Nicea (325) al Concilio di Calcedonia (451). I Padri latini, III, Casale Monferrato 1978, 485.

L’edizione critica è stata pubblicata da: S. Cavallin, Sermo de vita Sancti Honorati Arelatensis, op. cit.

Cf. S. Pricoco, Ilario di Arles, in A. Di Berardino (ed.), Dizionario patristico…, op. cit., II, 1747.

Cf. Hilarius Arelatensis, Sermo de vita Sancti Honorati Episcopi Arelatensis 4, 8-11. CF. anche G.M. Colombás, op. cit., 267.

La Vita Sancti Lupi Tricensis dipende dalla Historia ecclesiastica di Beda il Venerabile. Cf. I. Crété-Protin, Église et vie chrétienne dans le diocèse de Troyes du IVe au IXe siècle, in http://www.septentrion.com/auteurs/TES/CRETEPROTIN.HTML

Cf. Vita Sancti Lupi Tricensis 1.

Cf. Vita Sancti Hilarii Arelatensis 1, 2. Cf. anche S. Pricoco, L’isola dei santi. Il cenobio di Lerino e le origini del monachesimo gallico, Roma 1978, 38; I. Gobry, op. cit., 581.

Cf. S. Pricoco, Ilario di Arles, art. cit., 1747.

Cf. Vita Sancti Hilarii Arelatensis 2, 3. Cf. anche I. Gobry, op. cit., 581.

Cf. Vita Sancti Hilarii Arelatensis 3, 4.

Hilarius Arelatensis, Sermo de vita Sancti Honorati Episcopi Arelatensis 5, 23, PL 50, 1262B: „Et vere obluctanti mihi, et per saecularem illam nimis periculosam consuetudinem obstinationem interdum meam sacramento obstringenti […]”.

Cf. Hilarius Arelatensis, Sermo de vita Sancti Honorati Episcopi Arelatensis 5, 23-24.

Cf. Vita Sancti Hilarii Arelatensis 3, 4-5 – 5, 8.

Cf. ibidem 6, 9.

Cf. ibidem 7, 10–13, 16; 18, 23-24.

Cf. ibidem 15, 19 – 17, 22.

Cf. Concilium Reiense (18 XI 439), subsignationes, CCL [=Corpus Christianorum. Series Latina]148, 71. Cf. anche J. Limmer, Konzilien und Synoden im spätantiken Gallien von 314 bis 696 nach Christi Geburt. Teil 1: Chronologische Darstellung [= „Wissenschaft und Religion”, 10], Frankfurt am Main 2004, 100.

Cf. Concilium Arausicanum (8 XI 441), subsignationes, CCL 148, 71. Cf. anche J. Limmer, op. cit., I, 105.

Cf. Concilium Vasense (13 XI 442), subsignationes, CCL 148, 102. Cf. anche J. Limmer, op. cit., I, 109-112.

Cf. A. Hamman, Scrittori della Gallia, art. cit., 484-485; S. Pricoco, Ilario di Arles, art. cit., 1747.

Cf. I. Gobry, op. cit., 583.

Cf. ibidem 583.

Cf. S. Pricoco (ed.), Eucherio di Lione. Il rifiuto del mondo. De contemptu mundi [= „Biblioteca Patristica”, 16], Firenze 1990, 12.

Cf. Claudianus Mamertus, De statu animae 2, 9.

Cf. I. Gobry, op. cit., 584.

L’unica lettera autentica di sant’Eucherio che possediamo P l’Epistula ad Salvianum episcopum. Essa P stata pubblicata in: PL 50, 827-828; CSEL 31, 173; Monumenta Germaniae Historica (sciptores mer.) 3, 39-41.

Cf. PL 50, 1207-1210.

Cf. PL 50, 727-772; CSEL 31, 3-62.

Cf. PL 50, 773-822; CSEL 31, 63-161.

PL 50, 827-832; Monumenta Germaniae Historica (sciptores mer.) 3, 32-39.

Cf. PL 50, 701-712; CSEL 31, 177-194; S. Pricoco (ed.), De laude eremi, Catania 1965.

Cf. PL 50, 711-726; S. Pricoco (ed.), Eucherio di Lione. De contemptu mundi, op. cit.

Cf. A. Hamman, Scrittori della Gallia, art. cit., 480.

Cf. I. Gobry, op. cit., 584.

Circa la struttura e il carattere letterario del De contemptu mundiCf. S. Pricoco (ed.), Eucherio di Lione. Il rifiuto del mondo, op. cit., 23-32.

Circa la data del De contemptu mundi del suo destinatario e dell’ambiente, Cf. S. Pricoco (ed.), Eucherio di Lione. Il rifiuto del mondo, op. cit., 14-23.

Cf. I. Gobry, op. cit., 584.

San Salonio viene festeggiato il 28 settembre (Cf. Martyrologium Romanum 28 IX, n° 8); san Verano, invece, l’11 novembre (Cf. Martyrologium Romanum 11 XI, n° 3).

Cf. A. Hamman, Lupo di Troyes, in A. Di Berardino (ed.), Dizionario patristico…, op. cit., II, 2050.

Cf. A. Hamman, Scrittori della Gallia, art. cit., 498.

Cf. I. Gobry, op. cit., 586.

Cf. Beda Venerabilis, De temporum ratione 66. Cf. anche I. Gobry, op. cit., 490 e 583.

Cf. E. Griffe, La Gaule chrétienne, II, Paris 1966, 301-306; I. Gobry, op. cit., 586-587.

Il Commonitorium di Vincenzo di Lerino è pubblicato in: PL 50, 637-686; G. Rauschen (ed.), Vincentii Lerinensis Commonitorium [= „Florilegium Patristicum”, 5], Bonn 1906; R.S. Moxon (ed.), The Commonitorium of Vincentius of Lerins, Cambridge 1915; A. Jülicher (ed.), Vincenz von Lerins, Commonitorium, Tübingen 1929; R. Demeulenaere (ed.), Vincentius Lerinensis, Commonitorium [= CCL 64], Turnhout 1985, 147-195.

Cf. Vincentius Lerinensis, Commonitorium 2.

Cf. ibidem .

Cf. ibidem 23.

Cf. I. Gobry, op. cit., 588-589.

Cf. Gennadius Massiliensis, De scriptoribus ecclesiasticis 68 (67).

Gennadio presenta quest’opera con il titolo: Adversus avaritiam. L’Ad Ecclesiam è pubblicata in: PL 53, 173-238; CSEL 8, 224-316; Monumenta Germaniae Historica. Auctores antiquissimi 1/1; PLS [= A. Hamman (ed.), Patrologiae Latinae cursus completus. Supplementum] 3, 203-213; SCh 176, 138-344.

Pubblicato in: PL 53, 25-158; CSEL 8, 1-200; Monumenta Germaniae Historica. Auctores antiquissimi 1/1; SCh 200.

Cf. Gennadius Massiliensis, De scriptoribus ecclesiasticis 68 (67).

Cf. Dynamius Patricius, Vita S. Maximi PL 80, 31-40.

Cf. Eusebius Gallicanus, Collectio Homiliarum, CCL 101, 401-412.

Cf. S. Pricoco, Massimo di Riez, in A. Di Berardino (ed.), Dizionario patristico…, op. cit., II, 2175.

Cf. Dynamius Patricius, Vita S. Maximi 2.

Cf. ibidem 3.

Cf. ibidem 4-16.

Cf. Faustus Rhegiensis, Homilia Maximi 1. 8.

Cf. Concilium Regense, seu Reiense (18 XI 439), subsignationes, CCL 148, 72.

Cf. Concilium Arausicanum (8 XI 441), subsignationes, 13, CCL 148, 93.

Cf. Concilium Vasense (13 XI 442), subsignationes, 18, CCL 148, 102.

Cf. Concilium Arelatense in causa Fausti, abbatis insulae Lerinensis (a. 449-461), CCL 148, 132.

Cf. Avitus, Epistula 4 [Ad Gundobadum] . Cf. anche M. Simonetti, Fausto di Riez, in A. Di Berardino (ed.), Dizionario patristico…, op. cit. , I, 1336; E. Lana (ed.), Fausto di Riez. La grazia [= „Collana di testi patristici”, 178], Roma 2004, 5.

Cf. E. Lana (ed.), op. cit. , 6.

Cf. ibidem .

Cf. F. Gori, Fausto di Rie z, in A. Di Berardino (ed.), Patrologia. Dal Concilio di Calcedonia (451) a Beda. I Padri latini, IV, Genova 1996, 254.

Cf. I. Gobry, op. cit. , 590.

Cf. F. Gori, Fausto di Riez, art. cit. , 254.

Cf. E. Lana (ed.), op. cit. , 7.

L’opera P stata pubblicata in: PL 58, 783-836. L’edizione critica è stata pubblicata, nel 1891, da A. Engelbrecht nel CSEL 21, 3-98. La traduzione italiana: E. Lana (ed.), op. cit.

Cf. M. Simonetti, Fausto di Riez, art. cit. , 1337.

Cf. I. Gobry, op. cit. , 592.

Cf. ibidem 593.

Cf. Hieronymus, Epistula 125 .

Cf. A. Hamman, Rustico di Narbona, in A. Di Berardino (ed.), Dizionario patristico…, op. cit., II, 3039; I. Gobry, op. cit. , 593.

Cf. A. Hamman, Scrittori della Gallia, art. cit. , 514-515; Idem, Valeriano di Cimiez, in A. Di Berardino (ed.), Dizionario patristico…, op. cit. , II, 3547; I. Gobry, op. cit. , 593.

Cf. Concilium Regense (seu Reiense) (18 XI 439), subsignationes, 2, CCL 148, 71-72.

Cf. Concilium Vasense (13 XI 442), subsignationes, CCL 148, 102.

Le sue opere sono pubblicate in: PL 52, 691-758.

Cf. Ennodius, Vita B. Antonii monachi Lerinensis , PL 63, 239-245.

Cf. P. Siniscalco – U. Pizzani – A. Di Berardino (edd.), Scrittori dell’Italia , in A. Di Berardino (ed.), Patrologia. Dal Concilio di Calcedonia (451)…, op. cit., 197.

Cf. Ennodius, Vita B. Antonii monachi Lerinensi s, PL 63, 240 A.

Cf. ibidem 240 B.

Cf. ibidem 240 C.

Cf. ibidem 241 A-C.

Cf. ibidem 241 C.

Cf. ibidem 241 C – 246 A.

Cf. I. Gobry, op. cit. , 594.

Cf. Constantius Lugdunensis, Vita S. Germani 1, 1-2.

Cf. ibidem 1, 2.

Cf. ibidem 1, 3-6.

Cf. P. Fabre, St. Paulin de Nole et l’amitié chrétienne [= „Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome”, 167], Paris 1949, 16.

Cf. Paulinus Nolanus, Carmen 10.

Paulinus Nolanus, Carmen 21, 395.

Cf. Sulpicius Severus, Vita S. Martini 25, 4.

Cf. Paulinus Nolanus, Carmen 21, 398-403.

Cf. Sulpicius Severus, Vita S. Martini 19, 3. Cf. anche ibidem , 25, 4-5.

Cf. Paulinus Nolanus, Epistula 3, 4; Ambrosius Mediolanensis, Epistula 58.

Cf. Paulinus Nolanus, Carmen 21, 416 ss.; Epistula 5, 4.

Cf. Idem, Carmen 31.

Cf. Hieronymus, Epistula 58 [Ad Paulinum presbyterum ].

Cf. I. Gobry, op. cit. , 466.

Cf. ibidem 466-467.

Cf. Paulinus Nolanus, Epistula 29, 1-2.

Cf. I. Gobry, op cit. , 467.

Cf. ibidem .

Cf. Hieronymus, Epistula 53.

Cf. I. Gobry, op cit. , 468.

Cf. ibidem .

Cf. ad es.: Paulinus Nolanus, Epistula 1; Hieronymus, Epistula 53; Epistula 58; Epistula 85.

Cf. Paulinus Nolanus, Epistula 28, 5.

Cf. I. Gobry, op. cit. , 468.

Nell’indirizzo dell’Epistula 149 (Cf. anche Epistula 186), del 414-415, di sant’Agostino, san Paolino di Nola viene chiamato coepiscopus . Alla stessa data, e precisamente al 412-413, ci conduce una frase del De Civitate Dei (Cf. 1, 10; CCL 47, 11) ove il vescovo d’Ippona, rievocando la preghiera da lui rivolta durante la devastazione della città dai Goti nel 410, dice: „Paulinus noster, Nolensis episcopus”. San Paolino, perciò, fu fatto vescovo prima del 410, ma senza dubbio dopo il 408 (Cf. Augustinus, Epistula 95, del 408, nella quale non compare l’appellativo di episcopus ).

Cf. I. Gobry, op. cit. , 468-469.

Cf. ibidem 469.

L’edizione critica migliore di quest’opera si trova in: F. Martine (ed.), Vie des Pères du Jura [= SCh 142], Paris 1968. Alle pagine 221-230 di questa edizione si trova una copiosa bibliografia che può essere completata da quella pubblicata in: M. Bielawski – M. Starowieyski – J.A. Wojtczak (ed.), Żywoty Ojców Jurajskich [= „Źródła monastyczne”, 1], Kraków 1993. L’edizione precedente del testo originale è la seguente: B. Krusch (ed.), Vita SS. Patrum Iurensium Romani, Lupicini, Eugendi [= „Monumenta Germaniae Historica. Scriptores rerum merov.” 3; „Passiones Vitaeque Sanctorum aevi merovingici”, 1], Hannover 1896, 131-166 (Romanus: 131-143; Lupicinus: 143-153; Eugendus: 154-166).

Cf. Vita SS. Patrum Iurensium 4.

Cf. ibidem 11.

Cf. ibidem 11.

Cf. ibidem 6.

Cf. G.M. Colombás, op. cit., 271.

Cf. Vita SS. Patrum Iurensium 12.

Cf. ibidem 13-16.

Cf. G.M. Colombás, op. cit. , 271-272; M. Bielawski – M. Starowieyski – J.A. Wojtczak (ed.), op. cit. , 39, nota 17.

Secondo G.M. Colombás, due anni più tardi. Cf. G.M. Colombás, op. cit., 272.

Cf. Vita SS. Patrum Iurensium 24.

Cf. G.M. Colombás, op. cit., 272; M. Bielawski – M. Starowieyski – J.A. Wojtczak (ed.), op. cit., 46, nota 38.

Cf. Vita SS. Patrum Iurensium 25.

Cf. ibidem 60; 117.

Cf. ibidem 25; 61.

Cf. ibidem 25.

Cf. G.M. Colombás, op. cit., 272.

Cf. Vita SS. Patrum Iurensium 28-32.

Cf. ibidem 37-40.

Cf. ibidem 63-67; 79; 116.

Cf. ibidem 61.

Cf. ibidem 120-178.

Cf. G.M. Colombás, op. cit., 272.

Ossia, vicino al villaggio di Izernore (Isarnodorum), situato nei pressi di St. Claude (nel dipartimento di Ain).

Cf. Vita SS. Patrum Iurensium 126.

Cf. ibidem 120.

Cf. ibidem 121-125.

Cf. ibidem 126.

Cf. ibidem um 129.

Cf. ibidem 127.

Cf. ibidem 132-134; 151.

Cf. ibidem 135-138.

Cf. ibidem 139; 141-148.

Cf. ibidem 140.

Cf. ibidem 168-173.

Cf. ibidem 175-178. Cf anche G.M. Colombás, op. cit., 273.

Cf. Vita SS. Patrum Iurensium 175.

Cf. G.M. Colombás, op. cit., 273.

Cf. Vita SS. Patrum Iurensium 174.

Cf. G.M. Colombás, op. cit., 274.

Cf. ibidem .

Cf. Vita SS. Patrum Iurensium 170.

La Vita Sancti Caesarii è pubblicata in: Acta Sanctorum (Augusti), VI, 50-83.

Cf. V. Saxer, Cipriano di Tolone, in A. Di Berardino (ed.), Dizionario patri-stico…, op. cit., I, 683.

San Cesario di Arles presiedette i seguenti concili: Concilium Arelatense (6 VI 524), CCL 148 A, 42-46; Concilium Carpentoratense (6 XI 527), CCL 148 A, 47-52; Concilium Arausicanum (3 VII 529), CCL 148 A, 53-76; Concilium Vasense (5 XI 529), CCL 148 A, 77-81; Concilium Massiliense (26 V 553), CCL 148 A, 84-97.

Cf. Vita S. Caesarii 1, 5.

Cf. I. Gobry, op. cit., 627.

Cf. Vita S. Caesarii 1, 4.

Cf. I. Gobry, op. cit., 627.

Cf. Vita S. Caesarii 1, 5.

Cf. ibidem 1, 6.

Cf. I. Gobry, op. cit., 628.

Cf. T. Sardella, Cesario di Arles, in A. Di Berardino (ed.), Patrologia. Dal Concilio di Calcedonia (451)…, op. cit., 290.

Cf. I. Gobry, op. cit., 628; T. Sardella, art. cit., 290.

A proposito di Giuliano Pomerio, Cf. ad esempio: C. Tibiletti, La teologia della grazia in Giuliano Pomerio, „Augustinianum” 25 (1985) 489-506; M. Spinelli (ed.), Giuliano Pomerio. La vita contemplativa [= „Collana di testi patristici”, 64], Roma 1987, 7-41.

Cf. Vita S. Caesarii 1, 9.

Cf. T. Sardella, art. cit., 290-291.

Cf. I. Gobry, op. cit. , 628-629; T. Sardella, art. cit. , 291.

Cf. I. Gobry, op. cit. , 629.

Cf. ibidem .

Cf. Vita S. Caesarii 1, 12.

Cf. T. Sardella, art. cit., 291.

Cf. I. Gobry, op. cit. , 629.

Cf. T. Sardella, art. cit. , 291.

Cf. I. Gobry, op. cit. , 631.

Cf. ibidem 629.

Cf. T. Sardella, art. cit. , 291.

Cf. I. Gobry, op. cit. , 629-630.

Cf. ibidem 630.

Cf. ibidem ; T. Sardella, art. cit., 291.

Cf. Vita S. Caesarii 1, 21.

Cf. I. Gobry, op. cit. , 630.

Cf. T. Sardella, art. cit. , 291.

Cf. I. Gobry, op. cit. , 631.

Cf. ibidem 632.

Cf. ibidem 632-633.

Cf. Vita S. Caesarii 1, 38. Cf. anche T. Sardella, art. cit. , 291.

Cf. I. Gobry, op. cit. , 633.

Cf. ibidem 634; T. Sardella, art. cit., 291.

Cf. I. Gobry, op. cit. , 634.

Cf. ibidem .

Cf. Concilium Arelatense (6 VI 524), CCL 148 A, 42-46.

Cf. Concilium Carpentoratense (6 XI 527), CCL 148 A, 47-52.

Cf. Concilium Arausicanum (3 VII 529), CCL 148 A, 53-76.

Cf. Concilium Vasense (5 XI 529), CCL 148 A, 77-81.

Cf. T. Sardella, art. cit., 294.

Concilium Vasense (5 XI 529), can. 5, CCL 148 A, 80: „Et quia non solum in sede apostolica, sed etiam per totam Orientem et totam Africam uel Italiam propter hereticorum astutiam, qui Dei Filium non semper cum Patre fuisse, sed in tempore coepisse blasphemant, in omnibus clausulis post gloriam: «sicut erat in principio» dicatur, etiam et nos in uniuersis ecclesiis nostris hoc ita dicendum esse decreuemus”.

Cf. Concilium Massiliense (26 V 533), CCL 148 A, 84-97.

Cf. Vita S. Caesarii 2, 50. Cf. anche I. Gobry, op. cit., 636.

Cf. T. Sardella, art. cit., 292.

Cf. I. Gobry, op. cit., 630.

Cf. T. Sardella, art. cit., 292.

Cf. I. Gobry, op. cit., 630.

Cf. T. Sardella, art. cit., 292.

Cf. ibidem .

Cf. I. Gobry, op. cit., 636.

Cf. ibidem .

Cf. ibidem 638.

Cf. ibidem 638-639.

Cf. ibidem 639.

Cf. ibidem .

Cf. ibidem .

Cf. ibidem 640.

Cf. ibidem .

Cf. T. Sardella, art. cit., 292.

Cf. I. Gobry, op. cit., 641.

Secondo I. Gobry, nel 513. Cf. ibidem 641.

A proposito del contenuto di questa regola, Cf. I. Gobry, op. cit., 642-646.

Cf. T. Sardella, art. cit., 292-293.

Cf. ibidem 293.

Cf. I. Gobry, op. cit., 646.

Cf. Y. Hen, Scrittori della Gallia, in A. Di Berardino (ed.), Patrologia. Dal Concilio di Calcedonia (451) a Beda. I Padri latini, IV, Genova 1996, 297.

Cf. I. Gobry, op. cit., 646.

Cf. ibidem ; Y. Hen, art. cit., 298.

Cf. I. Gobry, op. cit., 646-647; Y. Hen, art. cit., 298.

Cf. I. Gobry, op. cit., 647; Y. Hen, art. cit., 298-299.

Cf. I. Gobry, op. cit., 647-648.

Cf. ibidem 648.

Cf. Florianus, Romani [vel: Remani] Monasterii Abbas, Epistula ad Sanctum Nicetium Papam, PL 72, 918 B: „Sed et coronae vestrae socium beatae memoriae dominum Caesarium Arelatensem episcopum, qui vixit inter barbaros pius, inter bella pacatus, pater orphanorum, pastor egentium, qui tanti census effusione nil perdidit, catholice regulam disciplinae dictis factisque demonstrans. Ipse igitur mihi Latinis elementis imposuit alphabetum, sed et hunc pro famulo discipuloque suo impetrare confido”.

Cf. Vita SS. Patrum Iurensium 126-174.

Cf. I. Gobry, op. cit., 648.

Cf. R. Barcellona, Giuliano Pomerio, in A. Di Berardino (ed.), Patrologia. Dal Concilio di Calcedonia (451)…, op. cit., 274.

Cf. Ruricius Lemovicensis, Epistularum libri duo, liber 1, ep. 17, CCL 64: „DOMNO ANIMAE SVAE ET TOTIS IN CHRISTO DOMINO DILECTIONIS VISCERIBVS EXCOLENDO POMERIO ABBATI RVRICIVS EPISCOPVS”; ibidem , liber 2, ep. 10, CCL 64: „DOMINO ANIMAE SVAE ET IN CHRISTO DOMINO VISCERIBVS EXCOLENDO POMERIO ABBATI RVRICIVS EPISCOPVS”.

Cf. I. Gobry, op. cit., 648.

Cf. ibidem 648-649.

Cf. ibidem 649.

I. Gobry la chiama: „Oratoria”. Cf. ibidem 649.

Cf. Caesarius Arelatensis, Epistula hortatoria ad virginem Deo dedicatam, PL 67, 1135-1138.

Cf. I. Gobry, op. cit., 649.

Cf. Venantius Fortunatus, Vita Sanctae Radegundis reginae. Cf. anche I. Gobry, op. cit., 649.

Cf. Y. Hen, art. cit., 296.

Cf. I. Gobry, op. cit., 650.

La regola è pubblicata in: PL 68, 385-398.

La regola è pubblicata in: PL 68, 399-406.

Cf. I. Gobry, op. cit., 650; Y. Hen, art. cit., 296.

Cf. I. Gobry, op. cit., 650.

Cf. Aurelianus Arelatensis, Regula ad monachos 15, PL 68, 390: „Mulieres vero, nec religiosae nec saeculares, nullae omnino, nec abbatis, nec cuiuscunque monachi mater, aut quaelibet propinqua aut nota ad salutandum, aut ad orationem ingredi permittatur”.

Cf. Aurelianus Arelatensis, Regula ad monachos 17, PL 68, 390: „Minori aetate in monasterio non excipiantur nisi ab annis decem aut duodecim, qui et nutriri non egeant, et cavere noverint culpas”.

Cf. Aurelianus Arelatensis, Regula ad monachos 51, PL 68, 393: „Pisces vero certis festivitatibus, aut quando sanctus abbas indulgentiam facere voluerit, tunc procurentur”.

Cf. ad esempio: Aurelianus Arelatensis, Regula ad virgines 38, PL 68, 404: „[…] secundam uero, tertiam, sextam et nonam in interiori oratorio [dicite]”.

Cf. ad esempio: Aurelianus Arelatensis, Regula ad monachos, Ordinem etiam quo psallere debeatis, in hoc libello iudicauimus inserendum., PL 68, 393: „Ad duodecimam imprimis directaneus paruulus: «Sol cognouit occasum suum» [Ps 103]”.

Cf. Aurelianus Arelatensis, Regula ad monachos, Ordinem etiam quo psallere debeatis, in hoc libello iudicauimus inserendum., PL 68, 394-395: „[…] dicite matutinarios canonicos; id est, primo canticum in antiphona, deinde directaneum: «Iudica me, Deus. Deus Deus meus, ad te de luce uigilo. Laudate Dominum, quoniam bonus est psalmus. Lauda, Ierusalem, Dominum». Inde, «Laudate Dominum de coelis. Cantate Domino canticum nouum. Laudate Dominum in sanctis eius»: in antiphona dicite hymnum, «Splendor paternae gloriae»; alia die, «Aeterne lucis conditor», et capitellum, et «Kyrie eleison» duodecim uicibus. Omnibus diebus quotidianis ita impleatur”.

Cf. Aurelianus Arelatensis, Regula ad monachos, Ordinem etiam quo psallere debeatis, in hoc libello iudicauimus inserendum., PL 68, 393: „Ad matutinos imprimis directaneum: «Exaltabote, Deus meus et Rex meus». Inde, «Iudica me, Deus»; et, «Deus Deus meus, ad te de luce uigilo», cum alleluia. Deinde, «Confitemini Domino», cum alleluia; inde «Cantemus Domino», et ipsum sic; postea, «Lauda, anima mea, Dominum. Laudate Dominum, quoniam bonus est psalmus. Lauda, Jerusalem, Dominum»: totos tres alleluia; deinde benedictio dicenda est. Post benedictionem: «Laudate Dominum de coelis. Cantate Domino canticum nouum. Laudate Dominum in sanctis eius»; cum alleluia. «Magnificat anima mea Dominum», aut cum antiphona, aut cum alleluia; hymnum, «Gloria in excelsis Deo», et capitellum. Et complete matutinos ipso ordine toto Pascha”.